domenica 14 febbraio 2016

USI E COSTUMI DELL’AGRO ROMANO

Di Luigi Amilcare Fracchia
Appunti vergati tra il 1912 e il 1922

Trascrizione e note a cura di Marco Orgero ã2002

CAPITOLO PRIMO


CONFINI E STORIA


Chi per la prima volta si reca per ferrovia dall’alta o bassa Italia alla Città Eterna, non può non essere colpito dall’aspetto singolare della campagna che cinge la capitale. Lasciata l’alta valle del Tevere verso Poggio Mirteto, o i colli Albani verso Colonna o i Simbruini verso Tivoli, l’occhio spazia su un’immensa distesa di territorio incolto o solo in qualche zona coltivato a cereali: non alberi annosi, non vigne, non filari di pioppi, non ubertosi poderi e case coloniche, ma campi e pascoli che si estendono fino alla lontana linea della marina e nei quali solo qualche capanna e qualche raro casolare attestano la presenza dell’uomo.
E’ questo l’Agro Romano, che, limitato ad ovest dal mare fra Civitavecchia e Terracina forma una specie di semicerchio circoscritto dai territori di S. Marinella, Bracciano, Monterosi, Scrofano (ora Sacrofano), Castelnuovo di Porto, Montemaggiore, Monterotondo, Tivoli, Zagarolo, Colonna, Velletri e quindi dai monti Lepini e dagli Ausoni sotto i quali si spiega la pianura delle paludi Pontine che giunge appunto fino al monte Circeo e a Terracina. Eppure quest’immensa e pittoresca plaga non sempre ha presentato l’aspetto di solitudine e d’abbandono che ha nei tempi nostri.
Ai tempi degli antichi Romani il Lazio, coltivato intensivamente, forniva gran copia di prodotti agricoli: lo attestano i vecchi scrittori, i quali parlano della fertilità dell’Agro di Roma e lo confermano gli scavi che, ovunque siano stati praticati, hanno posto in luce resti d’abitazioni e di ville, granai, cantine, canali ed altre opere di bonifica eseguite dai Romani. Né del resto si potrebbe concepire l’esistenza e il progresso di Roma in tempi in cui i trasporti erano estremamente difficili e costosi, se intorno ad essa non fosse esistita una zona di territorio intensivamente coltivato. Lo stesso dicasi per le altre città vicine a Roma fra cui alcune ebbero speciale importanza nella storia, come Vejo, Fidene, Gabi, situate si può dire alle porte dell’Urbe, per tacere di altre più lontane quali Ostia, Laurento, Ardea, Satrico; un giorno centri popolosi e fiorenti, oggi borghi isolati e deserti. Si è quindi certi di non andare errati, asserendo che ai tempi della repubblica Romana il Lazio non avesse nulla da invidiare alle più ricche campagne d’Italia. Ma coll’estendersi dalla potenza di Roma, radunatesi immense ricchezze nelle mani di poche famiglie, cominciarono a sorgere nei dintorni di Roma le splendide ville private di cui rimangono ancora gli avanzi monumentali: la piccola proprietà cominciò ad essere assorbita dal latifondo; al lavoro dei liberi coloni si sostituì sempre più l’opera degli schiavi. Cominciò quindi l’epoca della decadenza dell’Agricoltura nelle terre di proprietà dei Romani, mentre al nutrimento della popolazione provvedevano le triremi che approdavano ad Ostia, cariche dei prodotti della Sicilia, della Sardegna, dell’Egitto e della Libia. Durante il basso impero, le lotte per i vari pretendenti al trono, la rapacità del fisco, le malversazioni dei pubblici funzionari, il trasporto della capitale a Bisanzio e soprattutto, le invasioni dei barbari contribuirono ad accentuare la già iniziata decadenza dell’agricoltura dei Romani. Emigrate nelle provincie o a Bisanzio molte nobili famiglie, diminuita la sicurezza delle persone e degli averi, le campagne cominciarono a spopolarsi, specialmente quelle più soggette ai pericoli del saccheggio, i prati occuparono il posto degli orti e delle vigne, le colline si coprirono di vegetazione boschiva e le acque piovane, come quelle dei fiumi e dei torrenti, non più infrenate da opere sapienti, inondarono le terre più basse e vi stagnarono creando paludi ed acquitrini, fonti di malaria. Ad ovviare il grave disastro che minacciava l’economia pubblica e privata sarebbe occorsa l’opera pronta ed energica dei pubblici poteri, ma gl’imperatori, assorbiti dalle cure politiche e militari, poco poterono preoccuparsi della decadenza dell’agricoltura. Ricordiamo tuttavia Costantino, che con un suo editto dell’anno 332 vietò ai coloni ed ai servi di fuggire dalle terre affidate alla loro coltivazione e Teodorico, che minacciò di morte chi distruggesse le viti e le altre piante per sottrarsi al pagamento delle imposte. Col declinare dell’impero romano crebbe la potenza morale ed economica della Chiesa, la quale, arricchita da numerosi lasciti e donativi di principi e di privati, si sforzò anch’essa di porre margine alla decadenza agricola della campagna romana. A questo scopo furono istituite nel secolo VIII dai papi Zaccaria e Adriano I le “domuscultae”, definite dal compianto Prof. Tomassetti “gruppi di piccoli villaggi con una o più chiese e con numerosi poderi variamente coltivati.” Con tali istituzioni i papi miravano ad estendere il cristianesimo, a promuovere il ripopolamento, accrescendo il numero dei dipendenti dalla Chiesa ed infine a far rifiorire l’agricoltura, frazionando i latifondi fra numerosi enfiteuti ed affittuari. La nobile iniziativa produsse per qualche tempo frutti veramente notevoli. Numerose sono le “domuscultae” di cui resta il ricordo: la Calviziaria tra la Via Ardeatina e la Laurentina; la Galeria sull’Aurelia ed un’altra dello stesso nome sulla Portuense; Caprocorum sulla Cassia; Laurento sulla Laurentina; S.Cecilia sulla Tiburtina; la Sulpiciana sull’Appia ed altre minori. Come pure è comprovato che fiorenti furono le condizioni di queste “domuscultae” e numerosa la popolazione, tanto da poter fornire tributi e milizie alla Chiesa e da concorrere alla fabbricazione di parte delle mura della città Leonina.
Ma, col sopravvenire dell’età feudale, verso il secolo XI, cominciò per l’Agro un periodo di nuovo e più grave decadimento. Le terre della provincia romana, per concessione in parte spontanea di papi e d’imperatori, vennero in potestà di poche famiglie nobiliari, le quali, se entro Roma trovavano talora freno alle loro prepotenze nell’opera dei pubblici poteri, nelle campagne spadroneggiavano combattendosi fra loro ed angariando in mille guise la popolazione agricola. Le “domuscultae” furono perciò un poco alla volta abbandonate, e i pochi coltivatori rimasti nell’Agro romano cercarono rifugio e protezione nei castelli dei signori, risorse il latifondo e con esso si consolidò quel sistema quanto mai primitivo di sfruttamento agricolo che si è perpetuato sino ai nostri giorni. Non è a dire quanto deleterie fossero le conseguenze di un tale stato di cose: ne fanno fede le ripetute carestie che funestarono Roma nel Medio Evo, per ovviare alle quali furono escogitati numerosi provvedimenti, di cui uno veramente audace e straordinario per tempi ancora ben lontani dalle teorie sociali dei nostri giorni. Pensarono, in altre parole, i Papi di dare facoltà a chiunque volesse e potesse di dissodare le terre incolte dell’Agro Romano e di seminarvi, volenti o nolenti i proprietari, cui erano riservati certi compensi e diritti. Tipica a questo riguardo è la bolla di Sisto IV del 10 marzo 1476 colla quale il papa, dopo aver deplorato l’abbandono delle colture e la conseguente scarsità dei raccolti, ordina che sia lecito d’allora in poi e sempre nei futuri tempi, a chiunque di arare e coltivare i campi del territorio di Roma e del patrimonio di S. Pietro in Tuscia e nelle provincie di Marittima e Campagna, limitatamente alla terza parte di ciascuna tenuta, sia questa appartenesse a privati, sia a chiese, conventi, ecc. Ed ai proprietari era ordinato di non opporre resistenza alcuna all’esercizio dell’agricoltura nelle loro terre entro il limite stabilito, con la comminatoria di pene ai recalcitranti. Ma poiché difficile cosa doveva essere contrastare in quei tempi con l’interesse e l’arbitrio dei baroni, il provvedimento non portò tutto il beneficio che se ne poteva sperare: i proprietari delle terre costringevano i coloni a vendere a loro a prezzi bassissimi i prodotti del loro lavoro, che essi poi rivendevano con enorme beneficio, lasciando così ai coloni un utile insufficiente. Si resero perciò necessarie altre disposizioni che, informandosi al principio contenuto nella bolla di Sisto IV, cercarono di assicurarne l’esecuzione. Così Giulio II nel 1508 vieta ai proprietari delle tenute di comprare grano, oltre quello necessario per le loro famiglie e minaccia pene contro gl’incettatori e contro chiunque tenti d’impedire il trasporto del grano a Roma. Ma anche queste nuove bolle dovettero avere un effetto paragonabile a quello delle famose gride dei governatori di Milano, di manzoniana memoria. Tanto vero che poco tempo dopo, nel 1524, troviamo una nuova Bolla di Clemente VII che ripete le lamentele per la mancanza di colture nell’Agro romano e conferma le disposizioni di Sisto IV ordinando che sia coltivato un terzo d’ogni tenuta nei territori indicati nella Bolla del 1476 e per un raggio di venti miglia interno a Roma. Ai proprietari delle tenute era assegnata in compenso la quinta parte dei raccolti nelle zone più vicine a Roma, la settima nelle zone comprese fra le otto e le sedici miglia, la decima le più lontane e quindi meno preferite dagli agricoltori. Altre norme erano imposte a riguardo dell’importazione dei grani fuori dello Stato ed infine era ordinato che nessun proprietario possedesse, entro dieci miglia da Roma più di cento venticinque “vacche rosse” e ciò naturalmente per stimolare i proprietari a preferire la coltura ai pascoli. Queste disposizioni sembra che fossero state impartite sul serio, coll’intenzione in altre parole di farle osservare, come lo provano le proteste che furono indirizzate al papa dai proprietari lesi nei loro interessi: certo però si è che, se qualche effetto si ottenne, esso fu limitato e poco durevole; la questione, infatti, della coltivazione dell’Agro Romano continuò a preoccupare i successori di Clemente VII, i quali pure emanarono altre prescrizioni in proposito, come quella di rendere insequestrabili i buoi da lavoro e gli attrezzi occorrenti all’agricoltura e di sospendere l’esecuzione per debiti a carico dei coltivatori durante la semina e la raccolta. Si giunge così tra le buone intenzioni e gli sterili tentativi a due papi che maggiormente s’adoperarono per la redenzione dell’Agro: Pio VI e Pio VII. Il primo in un suo “motuproprio” del 1783 attribuisce la causa dei passati insuccessi al fatto che i suoi predecessori avevano “genericamente prescritta ed ordinata la coltura della terza parte di tutti i terreni, senza indicare quali effettivamente fossero le porzioni di terreno che dovevano sottoporsi all’aratro.....quanti e quali, i prati da riservarsi per pascolo…..quali i terreni sterili di loro natura”. Soggiungeva però di avere ordinato a monsignor prefetto dell’annona di formare, coll’aiuto dei periti, una specie di catasto “dividendo i quarti da seminarsi in terzeria o in quarteria secondo la natura e attività dei terreni, separando il terreno sterile dal fruttifero, assegnando i prati pei pascoli....e facendo tutto quello che si credesse opportuno per la buon’economia ed andamento di ciascuna tenuta, secondo la sua particolare situazione qualità ed altre circostanze”. Essendo tale lavoro stato condotto a termine, sentiti anche i proprietari interessati, ordinava loro di dare esecuzione al catasto a cominciare dal mese di marzo 1783 “senza che sia lecito a veruno fuorché con licenza scritta da Mons. Presidente dell’Annona, non solo di tralasciare in minima parte la semente che in esso è ordinato di fare, ma neppure di variare il turno, né l’ordine in veruna tenuta, né di cambiar luogo o divisione ai quarti né di far nuovi prati, né di variarne la situazione o di fare altre novità salvo che si trattasse di estendere i quarti destinati a semente. A garantire l’osservanza di tali norme, si disponeva che appositi periti ispezionassero le tenute, calcolassero il minor reddito, cui l’incuria dei contravventori avesse dato luogo e questo si ripetesse per via di sequestro dal proprietario, affittuario o colono per essere distribuito agli agricoltori bisognosi ed osservanti della legge. Anche le antiche prescrizioni che autorizzavano chiunque ad arare e seminare nelle terre altrui sono richiamate in vigore per quelle terre che il catasto designava per la coltura e che invece fossero lasciate in abbandono “e ciò senza pagamento alcuno di grano o danaro e che anzi il proprietario, affittuario o colono della tenuta sia obbligato a prestar gratis il pascolo per la coltura del terreno comodo di granai e casati ecc.”. L’effetto più importante conseguito da Pio VI fu la compilazione del catasto dell’Agro Romano, eseguita come si è detto nel 1783. La superficie dell’Agro risultò di rubbia 111.106 (ogni rubbio equivale a mq. 18484,38) divisa in 362 latifondi di cui 234 erano posseduti da 113 proprietari secolari e 128 da 64 enti morali. I maggiori proprietari erano i Borghese per rubbia 12.038, il Capitolo di S. Pietro 10.958, l’Ospedale di S. Spirito 8.321. Il terreno da coltivarsi annualmente sarebbe ammontato a rubbia 23.140, di cui 15.024 circa a maggese e 8.115 a coltivo. G1i avvenimenti politici verificatisi sotto il pontificato di Pio VI sono troppi noti perché abbiano ad essere qui ricordati ed essi furono senza dubbio una delle cause principali per le qua1i anche le disposizioni di questo pontefice rimasero lettera morta[1]. Lo studio del problema fu ripreso con maggiore impegno sotto Pio VII. Questi anzitutto stabilì nel 1801 un premio di paoli 8 (aumentato poi a 16) per, ogni rubbio di terra che fosse annualmente coltivato e una multa di paoli 4 (portata poi anch’essa al doppio) per ogni rubbio che essendo coltivabile secondo il catasto, fosse lasciato incolto. Riconoscendo poi che uno dei maggiori impedimenti alle culture dell’Agro romano era costituito dai latifondi che impedivano il frazionamento delle terre e il fissarsi degli agricoltori sul suolo coltivabile imponeva, nel 1802, una tassa di migliorazione di cinque paoli al rubbio sui terreni incolti intorno a Roma per la fascia di un miglio, la quale tassa sarebbe cessata “quando tanto col mezzo di vendita, che con enfiteusi o colonie i terreni fossero suddivisi” in altre parole i proprietari si determinino essi stessi “ad introdurvi quella miglior coltivazione che si cerca ottenere colla suddivisione”. Seguivano altre disposizioni intese a promuovere la sistemazione delle acque, la scomparsa degli stagni e paludi ed il miglioramento delle condizioni sanitarie, al quale scopo si proponevano premi a chi fondasse nuovi nuclei d’abitazioni specialmente presso le vestigia degli antichi centri abitati, ritenendosi essere quello uno dei mezzi migliori per allontanare la malaria. Né si tralasciava d’indicare quali fossero le culture più consigliabili nelle varie zone collinose piane o marine. Avremo occasione in seguito di indicare le cause per le quali i tentativi, anche quelli più seri e ponderati, per ridurre a coltura l’Agro romano cadessero nel vuoto: proseguendo ora il nostro cenno storico avvertiamo che le tasse di miglioramento furono presto abolite e che i papi che seguirono Pio VII, ammaestrati forse dagli insuccessi dei predecessori, nulla fecero di veramente importante in questo campo, se si eccettuano alcune disposizioni di Pio IX in materia di servitù rustiche ed usi civici. Materia, questa, ancora oggetto di gravi controversie e collegata strettamente colla questione della bonifica dell’Agro romano. Avvenuta nel 1870 la riunione di Roma all’Italia, parve che finalmente una nuova era dovesse iniziarsi non solo per la capitale, ma anche per la campagna che le sta intorno: voci autorevoli d’insigni patrioti, come Garibaldi, si levarono per spronare il governo ad affrontare e risolvere il secolare problema per l’onore stesso del nuovo regime e, rendendosi appunto interpreti di tale generale aspirazione, i ministri Castagnola e Gavola presentavano in data 20 novembre dello stesso storico anno 1870, alla firma di S.M. Vittorio Emanuele Il un decreto preceduto da una relazione in cui rilevata l’importanza della questione delle condizioni dell’Agro romano avvertivano come il governo non avrebbe potuto disinteressarsene senza demeritare il nome di provvido e civile e fallire al suo compito. “Il latifondo - accennavasi nella relazione - occupa circa due terzi di un’immensa superficie di oltre 212.000 ettari e la manomorta re1igiosa conta su questo terreno 159 corporazioni di cui una sola, il Capitolo di S. Pietro, abbraccia circa 19.000 ettari di superficie”. Liberare la proprietà dai vincoli legislativi che la inceppavano, spezzettare i latifondi, suscitare lo spirito d’associazione di lavoro, migliorare i metodi e le consuetudini agricole, prosciugare le acque stagnanti e regolare e utilizzare quelle correnti, combattere la malaria. Ecco, secondo quei ministri, il campo in cui doveva esercitarsi l’azione dello Stato. E come primo passo verso il conseguimento di tali nobili intenti si disponeva la nomina di una commissione d’uomini competenti ed autorevoli “i quali studiate le cagioni, ponderati gli effetti e poste in chiaro, colle indagini più accurate, lo stato presente dell’Agro, ricerchino i mezzi per apportarvi tutto quel miglioramento che sia in sostanza conseguibile e formulino tutte quelle proposte di provvedimenti tecnici ed economici, amministrativi e legislativi che il senno pratico, la scienza progredita, l’esempio d’altri paesi e gli stessi esperimenti e consigli del passato potranno suggerire.” La commissione, composta di 17 membri, comprendeva nomi illustri per scienza e per dignità di cariche esercitate quali il prof. Messedaglia ed il Senatore Brioschi, né vi mancava la rappresentanza dei proprietari e di coltivatori come il Conte di Carpegna ed Achille Gori – Mazzoleni. Ci siamo un po’ diffusi su questo che fu il primo atto del Governo nazionale a pro dell’Agro romano: più che un rimedio vero e proprio, alla constatata gravità del male, fu un’attestazione dell’interessamento governativo. I primi provvedimenti pratici diretti a tradurre in atto i buoni propositi si ebbero nel 1876-77 colla presentazione di un progetto divenuto poi legge il dicembre 1878 per la bonificazione dell’Agro romano. “Per provvedere al miglioramento igienico della città e campagna di Roma - sono parole della legge - e nell’interesse della Nazione, sarà intrapresa la bonificazione dell’Agro romano, che è dichiarata di pubblica utilità”. Tale bonificazione doveva consistere nel prosciugamento delle paludi e degli stagni d’Ostia e di Maccarese e del lago dei Tartari, dei bassifondi dell’Almone, di Pantano e di Baccano e di qualunque altro luogo palustre che richiedesse lavori d’indole straordinaria: nell’allacciamento delle sorgive, nella sistemazione degli scoli e incanalamento delle acque d’ogni genere e infine del bonificamento anche nei rispetti agricoli di una zona di terra per un raggio di circa 10 Km. dal miglio aureo del Foro. Le spese relative al prosciugamento delle paludi ed alla bonifica agraria erano poste a carico dello Stato: i proprietari delle terre bonificate dovevano però concorrervi nel limite del maggior valore che ne sarebbe derivato ai fondi. Per la sistemazione degli scoli, manutenzione dei canali, fossi ecc. dovevano provvedere direttamente i proprietari costituti in consorzi obbligatori. In conformità a questa legge furono intrapresi i lavori di prosciugamento delle paludi a carico dello Stato, ma quanto alla bonifica agricola del territorio intorno a Roma le cose rimasero in massima parte allo stato quo ante tanto che una seconda legge in data 8 luglio 1883 n. 1489 disponeva: “Il bonificamento agrario della zona di terreni compresi nel raggio di circa 10 Km. dal centro di. Roma, considerando per tale il miglio aureo del Foro, è dichiarato obbligatorio per tutti i proprietari di detti terreni.” Imponeva pertanto a tutti i proprietari interessati di presentare in un termine di sei mesi al ministero d’Agricoltura la descrizione dei loro possessi compresi nella zona di bonifica con la proposta dei miglioramenti agrari che ciascun proprietario intendeva introdurvi o l’indicazione del tempo entro il quale si sarebbero effettuati. Una speciale commissione doveva esaminare i progetti e comunicare ai proprietari le proprie decisioni sui lavori da eseguirsi nelle singole proprietà. Qualora i proprietari non avessero fatto alcuna dichiarazione ovvero, fattala, non avessero iniziato i lavori ordinati dalla commissione nel limite di tempo da essa prefisso, si sarebbe proceduto all’espropriazione dei fondi per cederli ad altri. Si stabiliva infine che 1’aumento di rendita derivante dal miglioramento dei fondi nella zona dei 10 km. dovesse essere esente da imposta fondiaria per venti anni e che i fabbricati di nuova costruzione fossero esenti dalla relativa imposta per 10 anni. In esecuzione di detta legge era poi emanato il regolamento 26 agosto 1885 n. 3367 di polizia rurale e d’igiene, nel quale s’impartivano le norme per la manutenzione dei fossi nella zona di bonifica, per l’incendio delle stoppie, la custodia degli animali, la costruzione delle abitazioni agricole, l’uso delle acque potabili, la difesa dalle malattie epizootiche ecc. Tutto insomma un complesso di disposizioni inteso a promuovere e a facilitare il compimento della trasformazione agraria voluta dalla legge dell’83 nella zona dei dieci chilometri. Successivamente, (R.D. 8 giugno l886) erano istituiti concorsi a premio di medaglie d’oro e danaro fra i comproprietari e gli agricoltori della zona soggetta alla legge di bonifica che avessero proceduto alla costruzione di fabbricati igienici per l’abitazione dei contadini, al miglioramento delle colture, all’allevamento semibrado o stallino ecc. e tali concorsi erano poi ripetuti negli anni successivi. Tralasciando altre disposizioni, d’indole generale riguardanti in altre parole tutte le provincie del Regno come il R.D. 22 marzo 1900 n, 195 (testo unico della legge sulla bonificazione delle paludi e terreni paludosi) e limitandosi alle sole disposizioni in favore dell’Agro romano troviamo la legge 13 dicembre 1903 n, 474 che conferma ed estende i privilegi accordati ai bonificatori. Per effetto di detta legge sono esenti per dieci anni dall’imposta principale i terreni sui quali siano state eseguite le prescritte opere di bonifica e di miglioramento, e per uguale periodo di tempo sono esenti d’imposta i fabbricati rurali ad uso di bonifica o d’abitazione del proprietario e dei lavoratori ovvero siano addetti alla trasformazione e custodia dei prodotti. Son dichiarati pure per dieci anni esenti da tassa comunale sul bestiame, le vacche da latte e le bestie da ingrasso, da allevamento e da lavoro mantenute nelle nuove stalle. Inoltre, con questa legge si provvede anche ai mezzi finanziari per mettere in grado i proprietari ed agricoltori di compiere le volute bonifiche, disponendosi che sulla cassa depositi e prestiti possa prelevarsi una somma non superiore a due milioni l’anno, da impiegarsi in mutui al 2,50 per cento estinguibili in 45 anni, a far tempo da cinque anni dopo la concessione del mutuo a favore di coloro che assumono l’esecuzione delle bonifiche agrarie nei propri fondi. Ai proprietari che non eseguiscano i lavori prescritti, è minacciata l’espropriazione e la vendita all’asta delle proprietà. L’efficacia della legge è estesa, oltre alla zona dei 10 Km. anche alle altre tenute che rientrano in tale zona per più di un terzo ed alle tenute di quella parte del bacino dell’Aniene che è compresa nell’Agro romano. Si prescrive infine che il Comune di Roma istituisca in tale zona scuole e condotte mediche. Le due leggi 8 luglio 1883 e, 13 dicembre 1903 furono riunite in testo unico con R.D. 10 novembre 1905 e completate con altra legge 27 febbraio 1906 n. 71, colla quale furono concessi allo Stato, per il ricupero dei crediti derivanti da mutui di favore concessi per la bonifica dell’agro Romano e per la percezione delle relative quote semestrali di capitale e d’interessi, gli stessi privilegi che gli spettano per l’esecuzione delle imposte dirette. Proseguendo questa rapida rassegna notiamo che con R.D. 14 novembre 1907, su proposta del ministro Cocco-Ortu, fu data facoltà al ministro d’Agricoltura di assegnare premi in denaro, non eccedenti Lit. 150, alle famiglie coloniche immigrate nelle provincie meridionali, in Sicilia e in Sardegna e nelle provincie di Grosseto e di Roma. Venivano all’uopo stanziate Lit. 600.000. Il premio, in verità molto modesto, fu poi aumentato, su proposta del ministro Luzzatti, mediante R.D. 13 marzo 1910, col quale fu stabilito che il sussidio di Lit. 150 anziché per una sola volta potesse essere accordato per cinque anni consecutivi alle famiglie di contadini immigrate nella zona dell’Agro romano soggette alla legge di bonifica, escluso il suburbio. Nello stesso anno 1910, avendo la commissione di vigilanza terminato di notificare ai proprietari interessati i lavori di bonifica da eseguirsi, fu istituito, pure su proposta del ministro Luzzatti., un comitato permanente di cinque membri con incarico di preparare gli elementi per gli studi della commissione, di vigilare sull’esecuzione dei lavori ordinati, d’accertare i casi d’inadempienza e formulare quindi le proposte d’espropriazione. Si giunge così all’ultima legge votata dal Parlamento in pro dell’Agro romano. La legge 17 luglio 1910 n. 491, quale ebbe di mira due scopi: estendere la zona di bonifica, limitata dalle leggi anteriori a 10 chilometri ed alla valle dell’Aniene e accelerare, con la concessione di nuove facilitazioni e di nuovi favori, il compimento delle opere necessarie per tale bonifica. A raggiungere il primo scopo è stata data facoltà al governo di estendere, mediante decreti Reali, o di propria iniziativa, o su domanda dei proprietari le disposizioni sancite nelle leggi precedenti sulla bonifica dell’Agro romano a terreni posti fuori della zona in esse leggi compilate: i proprietari di tali fondi sono conseguentemente assoggettati al dovere di compiere la bonifica ed acquistano il diritto ai corrispettivi benefici. Per raggiungere il secondo scopo è stato sancito tutto un complesso di provvedimenti in favore dei proprietari, dei coloni e di tutti coloro che nell’Agro prestano la propria opera o impiegano i propri capitali e cioè:
ü  Esenzione per venti anni da qualsiasi imposta governativa, provinciale e comunale a tutti i centri di colonizzazione agraria che, entro dieci anni, siano creati a non meno di cinque chilometri, dalla cinta daziaria e comprendano una popolazione rurale stabile di non meno di 25 famiglie. Espropriazione per pubblica utilità, da effettuarsi d’ufficio o su domande di privati, dei terreni necessari per la costruzione di borgate o centri di colonizzazione.
ü  Mutuo di favore, a senso della legge 1903 per la costruzione di detti centri. All’uopo è stata stanziata una somma annua di non oltre un milione per cinque anni.
ü  Riduzione di tasse di registro e ipotecarie per gli acquisti di terreni da bonificarsi e colonizzarsi.
ü  Istituzione d’una cassa di colonizzazione per l’Agro romano con entrate proprie e amministrazione autonoma, destinata a concedere contributi per costruzione di strade, provviste d’acqua potabile, costruzione di borgate (fino ad un quinto del costo) e premi alle famiglie coloniche immigranti nell’Agro, ai proprietari che cedono i fondi in enfiteusi con patto di miglioramento, agli agenti di sorveglianza, ai medici, maestri ed in genere a tutti coloro che si rendono benemeriti del bonificamento e della colonizzazione.
Quali sono stati gli effetti di queste leggi? Chi ha avuto la pazienza di seguirci in questa rapida rassegna, ha certamente notato che le disposizioni che si sono seguite dal 1870 in poi sono state ispirate a concetti sempre più pratici. Da principio si è imposto l’obbligo di bonificare; in seguito si è procurato di facilitare l’interesse dei proprietari, degli agricoltori e dei capitalisti ad effettuare, colla concessione di vantaggi economici di varia natura, tale bonifica e quindi anche i risultati, scarsi da principio, si sono andati sempre più affermando negli ultimi anni. La bonifica idraulica nella zona dei 10 Km. è un fatto compiuto; in zone più lontane rimaste ancora paludose si porrà presto mano ai lavori occorrenti: più arretrata è invece la bonifica agraria. Zone di terreno coltivato intensamente sono sorte in vari punti ove il suolo meglio si prestava per tale trasformazione; nuovi fabbricati sono stati edificati e si vanno edificando nelle vicinanze di Roma. L’industria delle vacche da stalla ha ricevuto, dalle facilitazioni accordatele notevole impulso; ma la zona incolta supera ancora di gran lungo quella coltivata: la solitudine e il deserto regnano ancora in gran parte dell’Agro, sebbene le nuove costruzioni gettino qua e là una nota di gaiezza e di vita. Ad ogni modo l’opera è bene avviata ed è nella speranza di tutti che il suo compimento avvenga in un non lontano avvenire.

IL CLIMA

Il clima della campagna romana è temperato: i grandi freddi come gli eccessivi calori sono, si può dire, sconosciuti. Raramente il termometro scende di qualche grado sotto zero nei mesi di dicembre o di gennaio e sale oltre 33 o 34 gradi in luglio o in agosto. La sapienza popolare ha definito la temperatura di Roma e della sua campagna con questo proverbio: “Sant’Antonio della gran freddura. (17 gennaio), San Lorenzo della gran caldura (10 agosto) l’uno e l’altro poco dura”, e di fatti i massimi del freddo e del caldo si verificano appunto verso quelle date, ma, come le piogge, che in genere sogliono cadere fra gli ultimi d’agosto e i primi di settembre, pongono fine ai calori estivi, così il febbraio porta i primi tepori primaverili, donde l’altro proverbio rusticano:
“Venga la febbre a chi febbraio mi dice
Son primavera per i buoni paesi.”
I venti predominanti sono quelli di scirocco e di ponente; non è rara però la tramontana, la quale per il solito dura tre giorni, qualche volta anche sei o nove. Ed anche questo proposito il proverbio dice:
"Tramontana di buon core o tre o sei o nove”.
 Le maggiori piogge si verificano in primavera, per lo più in aprile, ed in autunno per lo più in novembre; la maggiore siccità è in luglio.

CONFIGURAZIONE E NATURA DEL SUOLO

L’assetto dell’agro romano è vario, comprendendo altipiani, zone vallive e spallette: con questo nome si designano quelle ondulazioni che segnano il passaggio dall’altopiano alla valle. Sono piccole colline coperte spesso di cespug1i e di basso ceduo. Le zone piane sono predominanti: vaste pianure si estendono alle falde dei monti Albani, dei Lepini e degli Ausoni (paludi pontine); anche le valli del Tevere e dell’Aniene in qualche punto, come a Scorano e presso ponte Lucano, raggiungono una notevole larghezza. Non mancano però zone collinose, accidentate e frastagliate da insenature fossi e spallette, come nelle tenute d’Acqua Traversa, Santo Nicola, Castel di Guido, Boccea, Tagliata e molte altre. La natura del terreno è prevalentemente vulcanica e deve la sua origine ai vulcani Sabatini e Laziali: è però di natura alluvionale nei bacini del Tevere e dell’Aniene. Nelle zone vallive abbondano i componenti di natura argillosa - siliceo - calcarea: sono i terreni più fertili e perciò più coltivati. Gli altipiani hanno varia natura, con prevalenza tufacea e quindi diverso grado di fertilità, secondo la profondità del sottosuolo. In genere i terreni romani sono abbastanza ricchi di materie organiche, d’acido fosforico, d’azoto e di potassa: difettano invece di calce.

CONDIZIONI AGRICOLE ATTUALI E PRODOTTI

Come si é avvertito più innanzi, sotto il nome d’Agro Romano è compresa una vasta plaga che abbraccia tutto il territorio del Comune di Roma e tutto o parte del territorio d’altri comuni, da Civitavecchia a Bracciano, da Fiano a Tivoli, da Velletri a Terracina. Il solo territorio del Comune di Roma si estende per ben 207.462 ettari: di esso due terzi circa sono prati naturali e pascoli (vale a dire sono incolti), 50 mila ettari circa sono coltivati a cereali, 17.000 ettari circa sono boschivi. Il terreno seminativo aumenta d’anno in anno per effetto delle leggi di bonifica. I prodotti principali, per non dire unici, sono il frumento, l’avena ed il fieno. Del primo se ne produce per circa 250 mila quintali l’anno, della seconda circa 150 mila e del fieno circa tre milioni, quasi tutto proveniente da prati naturali, poiché i prati artificiali esistenti, nelle zone bonificate non vi concorrono che per circa 200 mila quintali. Il prodotto più importante, pertanto, è senza dubbio costituito dal fieno dei prati naturali e tale prodotto potrebbe accrescersi se si usassero i concimi chimici; invece l’unico sistema di concimazione è quello dato dalla stabbiatura delle pecore e si comprende bene che questa concimazione non può essere adatta e sufficiente per tutti i terreni. Ma i proprietari e gli affittuari non amano di fare spese di cui profitterebbero i pecorai, e questi, siccome rinnovano i loro contratti cogli affittuari d’anno in anno, procurano di sfruttare i pascoli quanto più è possibile senza curarsi del domani. Il fieno, per un terzo circa è falciato pressato e conservato e per 2/3 è consumato direttamente dal bestiame della tenuta, tanto da quello bovino ed equino che vi rimane tutto 1’ anno, quanto da quello ovino (circa 700.000 capi), che vi si trattiene da ottobre a giugno e che dà vita alle più importanti industrie locali, quali quelle dal formaggio, degli abbacchi e delle pelli, come vedremo più avanti, parlando delle singole aziende. La proprietà dei terreni appartiene per la maggior parte al patriziato romano e ad Enti ecclesiastici, che ne vennero in possesso ai tempi beati del feudalesimo od in quelli più vicini ma non meno fortunati, del nepotismo; alcuni appartengono ad istituti di beneficenza, come agli ospedali. Rarissimi sono i proprietari che amministrano direttamente i propri terreni: quasi tutti preferiscono darli in affitto ai cosiddetti “mercanti di campagna” per periodi di tempo che variano da nove a dodici anni e dietro una corrisposta che fino a pochi anni addietro oscillava fra le 50 e le 170 lire al rubbio (ogni rubbio equivale a mq. 18484.38); ora però i fitti sono aumentati sensibilmente ed in qualche posto si è giunti a L. 250 al rubbio. Naturalmente la diversa fertilità dei terreni, la loro ubicazione e viabilità, la ricchezza delle acque, la prossimità delle ferrovie.... questi ed altri sono i fattori che determinano il differente prezzo. Essendo la proprietà dell’Agro romano accentrata nelle mani di poche famiglie, ciascuna proprietà comprende vari tenimenti detti con vocabolo locale tenute. Ogni tenuta ha confini determinati, un casale ed un nome proprio: l’estensione è variabile essendovene alcune di 100 ettari, come altre di 8.000 e più; ogni tenuta forma oggetto di un distinto contratto d’affitto, quando, beninteso, non è amministrata direttamente dal proprietario, cosa questa, come si è detto, molto rara. I casali sono più o meno vasti e, spesso, sono addossati a qualche vecchia torre o altro rudere dell’epoca romana o medioevale: servono di deposito per i prodotti della tenuta e d’abitazione per il fattore, per il guardiano, per il dispensiere e per l’altro personale fisso della tenuta. Il mercante di campagna si riserva delle stanze per abitarvi quando per le lavorazioni, o per altro motivo, è costretto a rimanere qualche giorno nella tenuta. Ogni tenuta, come abbiamo accennato, ha un nome, di cui spesso è difficile rintracciare l’origine: alle volte è una corruzione di denominazione più antica come Corcolle da Querquetulae, altre volte la tenuta prende nome da un santo che si crede vi abbia dimorato o vi sia stato martirizzato. Così vi è la tenuta di S. Alessio, di S. Alessandro, di S. Rufina, di S. Severa, ecc. Le tenute sono divise internamente in appezzamenti detti quarti o riserve separati da staccionate (pali di legno di castagno) o da macere (muri bassi costruiti a secco), o anche, ma più raramente, da siepi, nelle tenute in cui esistono boschi che forniscono le frasche necessarie per costruirle. Anche le riserve hanno una denominazione e molte di queste denominazioni come Quartaccio, Pantanelle, Riserva di casa, Riserva del fontanile, sono comuni a varie tenute. Vi sono nomi di riserve che si riannodano a qualche fatto o personaggio storico come Rocca Cenci nella tenuta Pantano di Borghese, Passo Lombardo a Torre Nuova, Monte Michelangelo a Lunghezza, Cesare Augusto a Prima Porta, ecc. Molti nomi però non derivano che dal caso o dal capriccio d’antichi proprietari. Il casale, coi fontanili, le staccionate e gli altri accessori del fondo sono dati in consegna dal proprietario all’affittuario. In altri tempi...., migliori, si aggiungeva un certo numero di capi di bestiame che costituiva la cosiddetta dote della tenuta. Una "tenuta completa" dovrebbe comprendere tre amministrazioni od aziende, corrispondenti ai tre principali generi d’industria che si esercitano nell’agro: l’azienda del campo che provvede alle varie coltivazioni della terra; l’ azienda del procoio che si occupa dell’allevamento bovino ed equino e l’azienda della masseria che attende all’industria ovina. Di fatto, però molte tenute comprendono due sole aziende e magari una sola: quella del campo, vale a dire che l’affittuario esercita per proprio conto la sola industria delle semine; quanto ai terreni pascolativi, parte se ne riserva per falciarli e vendere il fieno, parte li subaffitta a piccoli proprietari di pecore detti con espressivo vocabolo locale “moscetti”.

PERSONALE AGRICOLO, SUE MERCEDI, UFFICI E CONDIZIONI

Come si è accennato non in ogni tenuta si esercitano le tre industrie caratteristiche dell’Agro romano: l’azienda del campo, l’azienda del porcaio e l’azienda della masseria; né ciascuna di queste industrie è esercitata dappertutto in misura identica, quindi anche il personale addetto a ciascuna tenuta è più o meno numeroso, secondo l’importanza della tenuta stessa. Alcune delle persone addette alla tenuta hanno funzione per così dire generica, altre invece sono addette alle singole aziende.

Hanno funzioni generiche:

Il guardia casale

E’ incaricato di fare un po’ di tutto come di custodire le galline, l’orto e la camera del padrone, pulire i cortili ecc., Stipendio: dalle 50 alle 60 lire mensili.

Il guardiano

(sono così contrassegnati i nomi degli addetti alla tenuta che hanno diritto alla cavalcatura) vigila che non siano arrecati danni alla stessa e non siano spostati i confini, percepisce dalle 50 alle 70 lire al mese: veste una livrea tutta stemmata sulle mostreggiature, che gli è rinnovata una o due volte l’anno a spese dell’affittuario o del proprietario, da cui dipende. Riceve regalie d’abbacchi e ricotte dai mercanti confinanti nelle feste di Natale e di Pasqua e un vello di lana quando si carosano (tosano) le pecore. Se opera una cattura gli spetta, secondo l’entità del danno arrecato dal catturato, una gratificazione da Lit. 1,50 a 5 ed anche più. Essendo armato di fucile spesso è anche cacciatore e in questa sua qualità accompagna il padrone ed i suoi ospiti nelle partite di caccia e di cacciarella (così è chiamata la caccia al cinghiale).

Gli staccionatori

Fanno le staccionate e i veicoli campestri. Lavorano a giornata sotto la dipendenza d’impresari (caporali) che assumono i lavori a tariffa. Percepiscono dalle due alle tre lire il giorno.

Sono addetti all’azienda del campo:

Il fattore

E’ il direttore dell’azienda del campo e quindi di tutti i lavori relativi alla semina dei cereali, ai lavori del fieno ed ai raccolti. Percepisce dalle 100 alle 150 lire mensili, più due gratificazioni (mance) una terminati i lavori della semina, l’altra terminati quelli dell’aratura. Tali gratificazioni ammontano in complesso ad una somma dalle 200 alle 800 lire annue.

Il sottofattore

Dipende gerarchicamente dal fattore ed ha l’incarico di guidare e sorvegliare le compagnie dei guitti, di cui si vedrà in seguito. Percepisce un compenso dalle 60 alle 75 lire mensili ed una regalia, annuale che va dalle 50 alle 100 lire.
Il fattoretto
Dirige una compagnia di guitti per uno stipendio superiore di 5 lire a quello dei bifolchi.

Il seminarello

Semina i cereali alla volata. Ha uno stipendio dalle 60 alle 70 lire.

Gli aquilani

Spurgano i fossi e preparano gli scoli delle acque nei campi seminati. Sono pagati a giornata con una mercede da 2 a 3 lire il giorno.

I guitti

Sono addetti ai più umili lavori del campo. Nel tempo detto della toppa, che va dal principio alla fine della semina, percepiscono da L.1,25 a L.1,50 il giorno. Nel periodo detto arte bassa che va fino alla mondarella, percepiscono di meno: da 1,15 a 1,30. I lavori del fieno e della mietitura li eseguiscono a cottimo.

Il capoccia

Dirige l’aratura dei campi ed ha ai suoi ordini il buttero ed i bifolchi. Lo stipendio varia dalle 70 alle 90 lire mensili: più ha le gratificazioni, nella misura da 100 a 300 lire l’anno. Ha pure diritto ad un compenso (mancia) dalle L. 2,80 a 5 per orni camarro o bue da macello che si vende e di lire 2,50 per ogni giovenco domato.

Il buttero

Ha la custodia dei buoi e percepisce uno stipendio superiore di lire 7,50 a quello dei bifolchi. Oltre al buttero dei buoi vi è anche quello delle pecore, delle bufale e dei cavallettari.

Il capoccetta

Precede i bifolchi nell’aratura e spacca ossia traccia i solchi diritti: percepisce quanto il buttero

I bifolchi

Guidano le coppie (vette) di buoi aratori e guidano la mietitrice o falciatrice. Nel periodo delle arature percepiscono dalle 50 alle 70 lire mensili e negli altri periodi, compreso quello dell’ara, dalle 100 alle 120.

Sono addetti all’azienda del procaio:

Il massaro

(sono così contrassegnati i nomi degli addetti alla tenuta che hanno diritto alla cavalcatura). Dirige tutta l’azienda del procajo, percependo generalmente 80, qualche volta anche fino a 100 lire mensili. Ha inoltre le propine, cioè da L. 2,50 a 5 per ogni cacciatora (vacca da macello) e per ogni vitello da macello che si vende.

Il portaspesa

Sua principale incombenza è di portare col carretto le vitelle al mattatoio e per ogni vitella percepisce dalle L. 2 alle 2,50. Come stipendio ha poco più del vaccaro. Veste la livrea.

Il capoccetta

E’ una specie di capo dei cavalcanti: come stipendio percepisce £. 10 più del vaccaro. E’ diverso dal capoccetta dei bifolchi di cui si è detto innanzi

Il cavallaro

Doma i polledri e per ognuno di essi percepisce dalle 5 alle l0 lire. Ha lo stipendio di un vaccaro ed una o due livree l’anno.

Il coratino

E’ il capo dei vaccari e percepisce uno stipendio superiore di £. 10 a quello di questi ultimi.

I vaccari

Mungono le vacche per uno stipendio mensile che va dalle 70 alle 90 lire più i giunchi. Il nome è abbastanza strano in rapporto al suo significato ed indica una propina che i vaccari percepiscono per aiutare il portaspese a caricare i vitelli sul carretto. L’aiuto è compensato con una lira per ogni vitello e la somma complessiva è ripartita fra i vaccari.

L’Apressataro

Ha l’incarico di riunire le vacche sparse per i pascoli e di condurle, sia di giorno sia di notte, alla rimessa o al puntone, ove i vaccari le attendono per mungerle. La sua paga varia dalle 60 alle 75 lire.

Il Capoccia delle mucche

Fa la sorveglianza delle mucche, cioè delle vacche da stalla e talora anche ha l’obbligo di mungerle. Percepisce dalle 90 alle 120 lire mensili.

Lo Gnuccaro

Il nome viene da gnucca, corruzione di mucca. Munge, pulisce e governa le mucche per uno stipendio che varia da 70 ad 85 lire

Il Lattarolo

E’ incaricato dei trasporto del latte dai procajo alla città: percepisce da 60 ad 80 lire mensili.

Sono addetti all’azienda della masseria:

Il Vergaro

Sebbene abbia la direzione di tutta 1’ azienda della masseria non percepisce che dalle 40 alle 60 lire mensili Lo stipendio in verità è poco, ma..... vi sono altre risorse, come vedremo nella parte speciale, al capitolo dedicato ai vergari.

Il Buttero

È quegli che trasporta a Roma il frutto della masseria, cioè gli abbacchi, i capretti e i formaggi. Come stipendio ha circa L. 5 più del pecoraro, ma per ogni abbacchio trasportato gli spetta un soldo, due per ogni capretto. Questa gratificazione deve dividerla col vergaro e la divisione si fa in fine della sbacchiatura. Per ogni viaggio gli spetta inoltre una mancia detta “scarico” che va da L. 1,50 a 2e che tiene esclusivamente per sé.

Il bagaglione o sogliardo

Ha l’incarico di raccogliere la legna pel fuoco e di sbrigare altre piccole faccende. Ha lo stipendio uguale a quello del pecoraro, più la spesa (viveri in natura).

Il pecoraro

Si occupa della guardia e della mungitura delle pecore. Percepisce L. 30 il mese ed ogni giorno 40 centesimi di pane, due piatti di ricotta o di polenta, un po’ di sale e un po’ di olio. Questa è la cosiddetta spesa che spetta a tutti gli addetti alla masseria.

Il biscino

E’ un ragazzo che è incaricato di portar l’acqua, di cambiare di posto le reti entro le quali sono rinchiuse le pecore, ecc. Percepisce metà della paga del pecoraro.
Gli addetti alla masseria, oltre alle paghe ed alla spesa, hanno diritto a dividersi le pelli delle pecore morte: ricevono inoltre un po’ di formaggio quando vanno “a montagna”, o ne tornano.

Oltre alle tre aziende già viste, in alcune tenute situate in località paludose vi è anche

l’azienda delle bufole (bufale) e ad essa sono addetti:

Il minorente

Rappresenta nell’azienda della bufolareccia ciò che è il massaro nell’azienda del procajo ed ha le stesse regalie. Lo stipendio va dalle 80 alle 100 lire.

Il vece

E’ una specie di sottomassaro. Lo stipendio è di 70 - 80 lire: le regalie ammontano circa a L. 50 annuali.

Il carotino

E’ colui che quaglia, ossia fabbrica i diversi formaggi che si ottengono dal latte delle bufale. Lo stipendio è di L. 100.

Il casengo

Corrisponde al portaspese del procajo e come questi trasporta a Roma il frutto della bufolareccia. Il mensile è di L. 70 – 80. Fa due viaggi la settimana; il mercoledì e la domenica: per il primo percepisce L. 1,50 per il secondo L. 2,50

Il sodaro

E’ un cavalcante che custodisce le bufale sode (non da latte). Ha un mensile di L. 70—80.

Il buttero delle bufale

Chiama a nome le bufale quando si mungono. Stesso stipendio.

Il bufolaro

Munge le bufale; aiuta il coratino nella manipolazione dei formaggi. Provvede la legna trasportandola su carrozze tirate da bufale. Stipendio L. 70.

Il paravanti

E’ un ragazzo che ha l’incarico di porsi davanti la bufala, mentre è munta, affinché non si muova. Stipendio L. 30 mensili.

Come risulta da questa sommaria enumerazione, pochi sono gli addetti alla tenuta pagati a giornata: la maggior parte è stipendiata ad un tanto il mese, più alcuni incerti; non per questo però la paga dei mesatari è molto migliore di quella dei giornalieri. La loro assunzione in servizio e il loro licenziamento non è regolato da disposizioni tassative, ma da nome consuetudinarie, che non sempre si rispettano e che, ad ogni modo, rimontano a tempi in cui suprema legge era l’interesse, se non di capriccio, del padrone. Così i bifolchi potevano essere licenziati ogni mercoledì ed ogni sabato senza diritto ad alcun indennizzo o preavviso. Il licenziamento dei vaccari poteva avvenire - sempre senza indennizzo o preavviso - il 15 od il 30 del mese: se avveniva in giorno diverso si doveva loro la paga di quindici giorni. I fattori, massari, capoccia, vergari, guardiani ed altri simili avevano diritto, e l’hanno ancora, ad un preavviso di tre mesi o allo stipendio di un ugual periodo. I guitti potevano essere licenziati ogni sabato e così in genere tutti i giornalieri avventizi. I pecorari sono legati da un contratto verbale che si stipula nel posto della loro provenienza e che ha effetto per una stagione. Licenziandoli arbitrariamente, hanno diritto ad un mese di stipendio. Un tempo, quando un mercante di campagna si ritirava dagli affari soleva regalare a ciascun capo d’azienda una cavalcatura completamente bardata; e l’ultimo che, a mia memoria, si sia conformato a quest’uso fu il sig. Settimio Mancini, quando, nel 1900, abbandonò l’industria agricola. Tale era, nei tempi andati, la forza di queste consuetudini, che non si dava mai il caso che, per l’assunzione in servizio di un capo azienda, si stipulasse un contratto scritto. Le due parti contraenti sapevano quali erano i loro diritti e doveri e quali norme si dovevano seguire, in caso di licenziamento: spontaneamente vi sottostavano. Ora non è più così: da una parte i lavoratori della terra hanno cercato di ottenere condizioni più favorevoli coll’organizzazione e coi ricorsi all’autorità giudiziaria ed in parte vi sono riusciti. Vi sono state, infatti, sentenze che hanno riconosciuto il diritto ad un compenso anche ai bifolchi arbitrariamente licenziati, visto che essi non sono avventizi ma salariati a mesata. Così pure ai capi azienda è stato in qualche caso assegnato un compenso pari persino a sei mesi di paga per l’avvenuto licenziamento. Ma d’altra parte anche i proprietari ed affittuari hanno cercato e trovato il modo di premunirsi contro le pretese dei dipendenti, imponendo ai capi azienda, che assumono in servizio, certi contratti capestro in cui tutte le garanzie sono per il padrone, nessuna o quasi per il dipendente il qual è persino obbligato ad assicurarsi a tutte sue spese contro gli infortuni del lavoro, esonerando il padrone da ogni responsabilità civile. Ed è naturale che le cose debbano andar così! Lasciata questa materia del contratto di lavoro o di locazione d’opere nelle campagne in balia delle parti contraenti la parte più debole e cioè il salariato, diviene la preda del più forte, il quale profitta della sua condizione per imporre patti leonini. E’ quindi indispensabile che, anche in questo campo, intervenga l’opera moderatrice dello Stato. Esso, che giustamente si preoccupa di tutelare i lavoratori che varcano l’oceano per fecondare con la loro operosità terre straniere, dovrebbe, a più forte ragione, preoccuparsi di chi rimane a coltivare il suolo nativo: dovrebbe, dico, tutelarne la vita, la salute e gli interessi. L’orario dei lavori campestri non sempre è tollerabile: i lavoratori sono esposti a speciali rischi e malattie, derivanti dalla malaria, dalla mancanza di buon’acqua, dagli alloggiamenti, dalle intemperie, ecc. Spesso si vedono lavorare in campagna ragazzi che hanno appena la forza di alzare uno zappone, costretti alla fatica un po’ dal bisogno, un po’ dall’incoscienza e dall’ingordigia dei genitori. E quale prospettiva si offre ai campagnoli nei casi d’invalidità e di vecchiaia? È tutto un complesso di problemi che richiedono una risoluzione conforme ai principi di giustizia e d’umanità, che debbono imperare in uno Stato civile. L’iniziativa privata non basta se non è stimolata ed integrata dallo Stato. Ci pensi quindi chi deve.

L’INDUSTRIA DEI BOSCHI


I boschi dell’Agro romano non sono più così estesi come una cinquantina d’anni fa; pur tuttavia ve ne sono ancora parecchi. Sono coperte di vegetazione boschiva molte spallette ed alcuni tratti di pianura, specialmente nelle zone prossime al mare (macchie piane) come presso Ostia, Anzio, Nettuno, Terracina. Tra le macchie piane una volta abbondavano quelle d’alto fusto, costituite cioè da querce secolari, mai tagliate, epperciò veramente enormi ed imponenti, ora qualche macchia d’alto fusto è rimasta nelle zone più lontane dalle ferrovie e dagli altri mezzi di comunicazione e di sfruttamento come nelle paludi Pontine. Negli altri posti le macchie sono state in parte cioncate, cioè sradicate e distrutte, in parte tagliate ed il taglio si ripete ogni nove anni. Dai boschi dell’Agro romano si ricava in minima parte legna da lavoro e cioè quanto serve per la costruzione di carri, carrozze e d’altri ordigni d’uso locale; la maggior parte è legna da ardere e si divide in tre categorie: legna da passo, legna da carbone e fascetti. La legna da passo è formata dai tronchi medi e dai rami più grossi, i quali, ridotti in pezzi lunghi circa un metro, sono dai cavallettari trasportati all’imposto o deposito provvisorio. Ivi il guardaimposto ne fa tante cataste, dette passi, lunghe metri 4,48 e alte 1,15 del peso dai 12 ai 21 quintali, la legna da carbone è portata a spalla dai portantini (sono tutt’uno coi carbonari) nei posti dove deve essere trasformata in carbone (carbonare) trasportato dai cavallettari al suo imposto finché i carrettieri a carbone lo trasportano a Roma. Ogni carretto trasporta venti ba11e del peso di kg. 80 ciascuna. I fascetti, formati colle frasche più sottili, non adatte per fare carbone, sono anch’essi ammassati all’imposto in grandi cataste: i carrettini li comprano al prezzo da lire 13 a 18 ogni cento e li rivendono ai fornai per 25 a 28 lire. Per il taglio delle macchie si fanno contratti a forfait. Un caporale od altro speculatore, paga una somma al mercante di campagna, si provvede degli operai occorrenti (tagliatori, carbonai, cioccatori, cavallettari) e, compiuto il taglio, rivende la legna ed il carbone.

I tagliatori

Il taglio dei boschi è compiuto dai tagliatori, ossia taglialegna, i quali provengono da Sassoferrato, epperciò sono anche chiamati sferratesi. Lavorano da novembre a metà marzo; qualche volta dormono nei casali, ma generalmente alloggiano in capanne di frasche che si costruiscono da loro stessi nella macchia. Sono molto frugali, si cibano esclusivamente di polenta ben soda, condita con pecorino grattugiato e bevono acqua: la festa però lasciano il bosco. E si recano, nei paesi vicini, ove spesso si compensano ad usura dell’astinenza della settimana. Sono pagati a cottimo: per ogni basto di legna prendono dalle 4,50 alle 6 lire, per ogni soma di carbone dalle 1,50 alle 2,25 e per ogni 100 fascetti pure da 4,50 a 6 lire. Se la macchia è fitta e pulita il lavoro vien pagato meno: viceversa vien pagato di più se la macchia è ingombra di roveti e di felciare ecc. ovvero ha delle lacune.

I carbonari

Provengono dalle vicinanze d’Arezzo o di Lucca epperciò sono anche chiamati fiorentini. Essi prendono la legna, la trasportano alle carbonare, ne formano una catasta di forma conica con un foro alla sommità, ove è immesso il fuoco. Quindi la catasta è ricoperta accuratamente di terra affinché la combustione non sia completa, ma parziale, quanto cioè occorre per trasformare la legna in carbone. Percepiscono da L.1,25 a 2,25 per ogni soma di carbone che producono, (la soma è il carico ordinario di un carretto cioè due balle del peso di Kg. 80 ciascuna) e da 0,40 a 0,80 la soma per l’impiazzatura delle carbonare. Il loro tenore di vita non differisce da quello dei tagliatori: fra loro non è difficile trovare qualcuno che si diletta d’improvvisare in versi endecasillabi.

I cioccatori

Quando una macchia non produce più legna nella misura voluta si ciocca, cioè si tagliano gli alberi, si svellano le radici ed il bosco si trasforma in riserva, cioè in prato. All’estrazione delle radici sono addetti i cioccatori, quasi tutti abruzzesi delle parti di Sulmona, detti anche. Cuppoloni.
Le radici estratte con grossi zapponi, sono frantumate colle accette e quindi se ne fa carbone detto di cioccatura, mentre quello fatto coi rami è detto di cannello.
Fatto il carbone, sullo spiazzale della carbonaia, rimasto libero, si usava una volta coltivare il tabacco, che poi era fumato dai campagnoli.
Ora però che il fisco non tollera più simili.... licenze, vi si seminano qualche volta zucche e cocomeri.

I cavallettari.

Molti anni or sono, quando i boschi erano più estesi, la classe dei cavallettari era numerosa e vantava anche alcuni privilegi, come quello d’avere appositi pascoli riservati esclusivamente per le loro bestie tali pascoli si trovavano nelle tenute della Banditella, Bocca di Leone, Pratalata e in altre località oggi i cavallettari sono ridotti a ben pochi: vengono dagli abruzzi e specialmente da Petrella Liri e Cappadocia; ve ne sono pero anche di Nazzano e Ponzano. Dormono, come i tagliatori, in capanne di frasca che fabbricano essi stessi: trasportano colle loro bestie la legna ed il carbone ai vari imposti, ciascuno guida da 5 ad 8 cavalli, disposti per fila indiana, il muso legato alla coda di quello che lo precede.  I prezzi dai trasporti che percepiscono i cavallettari variano a seconda delle rispettive distanze di percorso ora per la diminuita estensione dei boschi e per il crescente consumo il carbone prodotto dall’agro romano è insufficiente ai bisogni locali e quindi se ne importa dall’Umbria e dall’Abruzzo.

ALTRE INDUSTRIE

Dopo i cereali, le principali nostre industrie ci sono fornite dal latte, dal formaggio, dalla lana e dalle carni bovine ed ovine.
Il latte è somministrato in quantità dai procoi delle vacche ed interamente venduto ai negozianti di Roma, in ragione di 35—60 centesimi al boccale, o doppio litro; è portato in Roma, entro brocche di rame stagnato, dai lattaroli con carretti ad uno o due cavalli, e mai a tre come, invece, vorrebbe una guida della nostra provincia. Con l'aumento della popolazione ò aumentato anche il bisogno del latte, ma sono pure sorte molte nuove vaccherie di piccola media e grande importanza, cosicché il latte che ora si produce nell’agro è di poco inferiore ai bisogni del consumo, sebbene sia grandemente diminuito il numero delle vacche di campagna. Il burro, il caciocavallo e la fontina, e tutti i vari latticini di vacca sono manipolati — come dicemmo a suo tempo — dai negozianti di Roma, primi fra i quali vanno annoverati Paolo Giuliani, l’avv. Alessandro Sansoni e i fratelli Nardi, direttamente, e non più, cono una volta, agli stessi- procoi.
Il formaggio pecorino, la lana, la ricotta e gli abbacchi li fornisce la masseria: il pecorino stagionato si esporta in quantità rilevantissime, come pure la lana ovina, molto stimata, e le pelli degli abbacchi, dette bassette. L’industria delle pecore, purché ben condotta, offre discreti guadagni: delle carni, in specie, il consumo locale è grandissimo, tanto che siamo giunti a dover ricorrere ad altri mercati, alla Sardegna soprattutto.
Ma la grande risorsa dell’agro romano sono i cereali: sarebbero, anzi, diciamo, poiché, fin a poco tempo addietro, le nostre campagne difettavano di sementi ed ora, solamente, può rilevarsi un notevole incremento di queste coltivazioni, che dobbiamo augurarci duraturo e progressivo.
Una volta, poi, questa campagna, che ha pascoli ubertosi ed estesissimi, si distingueva per gli splendidi allevamenti equini e bovini che vi prosperavano; oggi, invece, il bestiame diminuisce rapidamente, quel poco che ne rimane - salvo rare eccezioni - viene innanzi e si riproduce da per sé, alla buona, od a casaccio addirittura, senza quelle accorte selezioni e quegli incroci sapienti, che fissano, poi, quegli splendidi tipi di razze, i quali ricompensano ad usura moralmente e materialmente l’intelligente opera degli allevatori. E pensare che qui, in Roma, anche in questo campo tanto e tanto ci sarebbe da fare qualche cosa si fa, sì: ma l’eccezione avrebbe da divenire la regola e, al riguardo delle razze equine, un certo stimolo, oggi, dato dalle società delle corse e dal governo stesso, che ha, molto provvidamente impiantato diverse, stazioni di monta, nell’agro romano, con stalloni specialmente arabi ed inglesi. Ritorniamo a ripeterlo, si potrebbe e si dovrebbe fare molto di più, e tanto per gli equini che per i bovini.

L’INDUSTRIA DEL BESTIAME

Le vacche

Dicono che il toro scampato dal diluvio universale nell’arca di Noè si chiamava Brugnolo e fosse di manto marino. La sua compagna si chiamava Cerasòla e da Brugnolo e Cerasòla è derivata la razza bovina delle nostre tenute. Nelle tenute dove si alleva un numero abbastanza rilevante di vacche, delle 500 alle 1.000, si fa la selezione tra i vitelli, conservando i migliori per la riproduzione o per farne buoi da lavoro e destinando gli altri al macello. La vaccina si sottomette per la prima volta alla monta quando ha raggiunto i due anni. Allora si chiama nùdola mentre prima si chiamava seccaticcia. I prodotti delle nudole, generalmente, non si conservano mai, si uccidono quando hanno raggiunto un peso dai 70 ai 100 chilogrammi. Quando poi la nùdola ripartorisce si chiama vacca e tra i prodotti delle vacche si scelgono quelli da conservarsi. La nùdola, dopo che le è stato tolto il vitello, è inviata alla rimessa, dove il vaccaro la munge. Prima però occorre abituarla alla vista dell’uomo in piedi, poiché essa, nata e cresciuta in aperta campagna, non conosce e non teme se non uomini a cavallo. Questi, muniti del loro bastone ferrato, sorvegliano le vacche e le guidano dove vogliono, servendosi del bastone per aprire i cancelli senza bisogno di scendere mai da cavallo. Per abituare adunque la nudola alla vista dell’uomo a piedi, il vaccaro comincia a palparla prima con un bastone poi con le mani, e quando la nùdola è abbastanza mansuefatta comincia a mungerla, e in questo tempo le s’impone pure un nome. Già si è parlato, in altra parte, dei nomi dei buoi. Per lo più le vacche portano il nome del fritto (l’innamorata del vaccaro) o delle ragazze più belle della tenuta, le quali non si terranno, però, molto lusingate da tale onore. Spesso pure si scelgono nomi di attualità: così nel 1878 quando avvenne 1’assassinio del capitano Fadda molte vacche si chiamarono Antonietta e Raffaella. Il modo di lavorare, cioè di mungere le vacche, usato nell’agro romano è tutto speciale, e credo che non sia pratichi in altra parte. Anzitutto la vacca si impiccia, le si passa cioè fra le corna una corda e per messo di essa si obbliga la bestia a piegare la testa dal lato sinistro; la corda quindi si lega alla zampa sinistra facendola passare sotto la spalla. Mentre la vacca sta col collo piegato, il vaccaro, tenendosi a sinistra, le introduce la mano destra nella vulva e mercé questa operazione la vacca rende, ossia dà il latte. Il sistema è veramente originale e farà ridere parecchi è però certo che le nostre vacche, forse per la loro indole selvatica sono restie a dare il latte, e che col sistema che ho descritto lo rendono sempre fino a gravidanza inoltrata.

I cavalli

Quando in una tenuta si a un numero considerevole di cavalli essi sono alle dipendenze del capoccia (aboliti) delle cavalle, in caso diverso se ne occupa il massaro. Prima i mercanti avevano stalloni di razza propria e la monta si faceva alla punta ossia lasciando lo stallone libero nei pascoli. Ora quest’uso va scomparendo, avendo i mercanti compreso il vantaggio di dare lo stallone a mano. Vi sono nell’agro romano varie stazioni di monta mantenute dal governo con stalloni propri; e secondo la qualità di questi varia il prezzo della monta. Le cavalle partoriscono come le vacche a tre anni in aperta campagna all’acqua e al gelo; i nati tino ad un anno di dicono vannini, da un anno a due anni carosi, a tre puledri. La femmina si chiama pure vannina e carosa, ma a tre anni si chiama stacca. I puledri pascolano liberi, nei prati; a tre anni si presentano alle commissioni militari di rimonta, le quali scelgono i migliori, per 1’ esercito. Gli altri, si tengono per uso della azienda o si vendono.

Le bufole

Secondo Paolo Diacono furono portate in Italia la prima volta nel 595 e nel 1816 nel nostro agro ce n’erano ancora in numero di 5.000 La bufola vive nei luoghi paludosi; nell’agro romano il. suo allevamento si pratica nelle paludi pontine e a Maccarese, il quale è appunto celebre per la bontà dei suoi latticini fatti col latte dello bufole. Nonostante il suo aspetto goffo e selvaggio la bufola è abbastanza intelligente; se ha trovato in un posto pastura di suo gradimento supera qualunque ostacolo per tornarvi, rompe le staccionate o le salta, passa a guado corsi d’acqua, e tanto fa finché ottiene il suo intento. A Maccarese un toro percorreva vari chilometri per andare a visitare l’orto di padron Cencio presso lo stagno fra Maccarese e Fiumicino. La bufola è anche molto testarda, soffre tanto per l’eccessivo caldo quanto o per l’eccessivo freddo; questo però le riesce più nocivo e talora la uccide. Il modo di mungere le bufole è diverso da quello usato per le vacche, ma non meno originale. Si dividono le bufole dai bufolini e si fanno entrare in due rimessini diversi. In mezzo stanno i bufolari coi secchi. Le bufole sono impastoiate, affinché non si muovano: vi sono inoltre i paravanti incaricati di pararle col bastone e se la bestia si mostra un po’ irrequieta le bastonate piovono sulla sua groppa come gragnola. E’ una cosa un po’ barbara, ma necessaria, almeno così dicono i bufolari. Per mungere la bufola il buttero la chiama a nome; il bufolino che ha già imparato a conoscere il nome della madre (bisognerebbe sentirli questi nomi!) emette un morghetto (muggito) e si presenta al cancello del rimessino delle bufole. Il buttero gli apre e il bufolino corre dalla madre e si mette a poppare. Appena però la bufola ha cominciato a dare il latte il bufolino è cacciato con una bastonata sul muso e il bufolaro seguita a mungere la bufola. Le bufole munte sono poi condotte in un altro rimessino, ove sono pure spinti i bufolini tolti alle poppe materne cosicché appena una bufola entra in quel recinto, tutti i bufolini rimasti insaziati le si fanno addosso per suggerle quel po’ di latte che le resta. La bufola così sballottata distribuisce calci e cornate ma quelli non la lasciano finché ha una stilla di latte. Finita la munta si separano di nuovo le bufole dai bufolini e si mandano divisi al pascolo. Col latte delle bufole il coratino manipola vari prodotti, tra cui le provature, le marzoline, le cosiddette uova di bufola, tutti latticini da tavola assai pregiati.

Le pecore

La pecora si sottomette alla monta quando ha raggiunta 1’età di un anno; è però pratica migliore attendere i diciotto mesi. Durante la prima gestazione la pecora si chiama recchiarella e seguita a chiamarsi così fino al secondo parto; allora diviene terzenga. Dopo il secondo parto e fino alla morte, che avviene verso i dieci anni si dice pecora. Si dicono poi streppate le pecore che non danno più latte e sode quelle rimaste infeconde. Quanto ai maschi diconsi agnelli fino alla prima tosatura, poi sementini o ciavarri fino a tre anni, quindi montoni. Quando il montone presenta la sforchettatura, quando cioè ha perduto gli incisivi, il che avviene verso i cinque anni da che è stato adibito alla monta, o anche prima, si castra e prende nome di serrone; poi si manda al macello. I prodotti delle pecore destinati al macello diconsi abbacchi, mentre frajoni dioconsi i prodotti nati morti o che muoiono prima della mattazione; le pelli di questi frajoni, del valore dai 20 ai 40 centesimi spettano al pecoraio. La sbacchiatura si fa da ottobre a febbraio e gli abbacchi si uccidono quando hanno dai 18 ai 30 giorni di vita; dopo questo periodo cominciano a mettere pancia perdono il grasso e la carne diviene insipida. Per la selezione degli agnelli e delle agnelle oltre che alla forma e alla complessione si bada alla bontà della lana. Questa non deve essere né spagnola né casciana ma deve empire la mano. I nomi che si danno alle pecore secondo le loro varie età e il sesso variano non solo da provincia a provincia, ma anche da un circondario all’altro, e così variano pure gli usi relativi al trattamento dei pecorai. Questi per il solito quando partono dalla montagna ricevono una caciotta di un chilo e una di mezzo chilo quando vi fanno ritorno, hanno poi diritto a sette pelli di pecore morte nello anno e cioè tre in montagna e quattro in maremma. Nella ricorrenza di Natale, ricevono rane, vino e carne in umido, in carnevale una libra di ventresca od una regalia di L. 1,50 o 2 e per Pasqua uova, salame ed un agnello in comune.

L’AZIENDA DEL CAMPO

le coltivazioni della terra

Come si è avvertito precedentemente la maggior parte dell'Agro romano è lasciata incolta per uso di pascolo; una parte però è coltivata ed il genere di coltura è quella estensiva, applicata quasi esclusivamente ai grani ed alle biade. Su queste due coltivazioni, pertanto, si sperimentano, di solito, l’attività e l'iniziativa dei mercanti di campagna, che ad esse affidano capitali rilevanti. L'azienda del Campo, quindi, che attende a queste come a tutte le altre coltivazioni, ha una somma importanza nella nostra agricoltura. Spetta al fattore la direzione e la responsabilità di questa gestione ed esso esercita il suo ufficio coadiuvato nella vigilanza da vari subalterni, fra i quali il sottofattore, che ha la diretta sorveglianza dei lavori di coltivazione; il capoccia, che s'occupa dei lavori speciali di dissodamento e preparazione del terreno per la semina, lavori tutti eseguiti dai bifolchi guidati dal capoccetta, i fattoretti, che dirigono le compagnie dei guitti, come sono chiamate le opere nella Campagna romana. Vi è poi il guardiano, che vigila per la tenuta e, ove occorre, sostituisce nel comando il diverso personale; ed il buttero, il quale, addetto alla rigorosa custodia dei buoi, s’occupa di portarli al lavoro, donde, alla sera, li prende nuovamente in consegna.
Accenneremo, così di volo, ai diversi generi di lavorazione che si praticano nella Campagna romana.

Sterpatura

Quando ai vuole dissodare un terreno e metterlo a semente la prima operazione occorrente è la sterpatura, che consiste nel nettare il campo dagli sterpi, dai rovi e dalle ginestre, se ve ne sono e da quanto altro può impedire al bifolco di operare una buona maggese. La sterpatura si pratica dal dicembre al marzo; è un lavoro che richiede dalle tre alle quattro opere[2], secondo lo stato del terreno più o meno sporco, per ettaro, le quali procedono allo sgombro arbusti col mezzo di grossi zapponi. Tutte le erbacce sono radunate a mucchi, detti mattaglie che, di solito, si incendiano; in quelle tenute però dove la legna fa difetto questo sterpame è adibito come combustibile dalla stessa azienda.

Rompitura

Questo lavoro si può eseguire tanto con l'aratro col ceppo, propriamente detto aratro, che con l'aratro col dentale, chiamato perticara. Col primo si possono rompere i monti, le terre leggere, tufacee, arenose, ecc. col secondo, invece, le terre forti, le argillose e quelle che, in seguito a lungo riposo, hanno la superficie erbosa, compatta e tenace. Occorrono, in media, due opere[3] con l'aratro e da cinque a sei con la perticara per ogni ettaro; per eseguire la maggese con l'aratro vi vogliono cinque lavori, con la perticara invece uno della medesima e quattro di aratro. Ma non tutti si attengono a queste regole: spesso i terreni, per una malintesa economia, sono lavorati solo superficialmente, e, ai giorni nostri, molti sono quei mercanti di campagna che si limitano ad un unico lavoro con la perticara. I diversi lavori dell'aratura si fanno trasversalmente l'uno dall'altro per evitare che l'aratro passi due volte nel medesimo solco. Nell'eseguire poi questi lavori i bifolchi si orientano per la direzione del solco, con le cime delle lontane montagne, chiamate contraposta che spiccano all'orizzonte. Per ben tirare il solco si richiede una grande pratica e i buoni capoccetti invece vanno continuamente scemando nelle nostre campagne. I lavori dell'aratro sono, o, meglio, erano questi.
1°) la rompitura la quale ha luogo nella direzione da S. a N.;
2°) la ricotitura, da N.N.O. a S.S.E.;
3°) il solcomatto, da S.O. a N.E.;
4°) l’inquartatura, da O. a E;
5°) la sementa, da S. a N., conservando però una certa distanza dal solco tracciato col primo lavoro.
Bisogna dire però che questi sistemi di aratura fin qui descritti, come quelli che si praticavano cogli aratri col ceppo e col dentale, sono quasi scomparsi del tutto essendo stato generalmente adottato l'aratro Sacik, piccolo e grande, perché s'è capito che la terra ogni tanto ha bisogno d'essere rinnovata in modo da portare alla superficie quella che non mai visto il sole. Lavorando invece con la perticara la terra ne risente un maggior beneficio poiché il primo lavoro riesce più profondo che quello fatto con l’aratro e i successivi, eseguiti coll'aratro stesso — che sono appunto i quattro ultimi sunnominati — riescono di più grande efficacia trovando una rompitura più buona. Altri usano rompere con la perticara, dare un lavoro con l’aratro e seminare con la perticara stessa: altri lavorano ancor più spicciamente con errati criteri ai economia…. E poi si lagnano all'ara! Dice un proverbio: rompi come puoi e ricoti come vuoi, perché, difatti, nella rompitura l'andare più o meno profondo non dipende tanto dalla propria volontà quanto dalla natura e condizione del terreno, mentre che i lavori successivi offrono un'agevolezza maggiore. Terminati i lavori della rompitura i campi arati o maggesi erano pronti a ricevere il seme prima del granoturco poi del grano.

Coltivazione del granturco.

La coltivazione del granturco fatta per lo più nelle valli e insenature, era fatta in società tra i mercanti e i caporali delle opere: il mercante forniva il terreno e vi faceva eseguire le arature occorrenti e cioè la rompitura, troncatura e solco di semina. Vale a dire la terra era prima rotta colla perticara e le zolle così formate dicevansi fette. Queste fette erano poi suddivise, sminuzzate, troncate coll'aratro col ceppo e finalmente sul terreno così preparato si tracciavano i solchi che dovevano raccogliere il seme. Il caporale, servendosi dei guitti, provvedeva alla stoppatura, faceva cioè sminuzzare ulteriormente, se ve ne era bisogno, le zolle più grosse e tenaci. Quindi si s'incaricava della semina della zappatura e dell'accavallatura: lavoro diretto a incalzare le piante. Maturato poi il prodotto, in settembre, il caporale, sempre a spese sue, provvedeva le opere occorrenti per i lavori della raccolta ingaggiandole nei paesi vicini ovvero a Piazza Montanara (compagnie della leggera)[4]. Questi lavori compensavano la coglitura, la scartocciatura o sgusciatura e la battitura. La battitura si faceva con due bastoni legati alla estremità in modo che rimanessero snodati: uno era impugnato dal battitore, l'altro serviva a dare i colpi, l'arnese si chiama mazzafrusto. Il prodotto era diviso a metà, ma il mercante aveva anche l'obbligo di trasportare il granturco dal campo al granaro. Ora in luogo del mazzafrusto si usano le macchine sgranatrici che danno un prodotto netto da scorie, mentre col precedente sistema il granturco veniva commisto a frammenti di tutoli: una vera porcheria. Il sistema della coltivazione in società fra mercante e caporale è stato ora generalmente sostituito dalle colonie. La produzione, nei tempi andati, quando il granturco era più usato per l'alimentazione dei lavoratori della terra, era considerevole: ora è diminuita, meno che nelle Paludi Pontine dove il granturco si produce ancora su larga scala per la speciale qualità di quelle terre molto adatte a tale coltura. Il granturco delle Paludi Pontine suole raggiungere un'altezza di circa tre metri: si raccoglie a novembre ed è detto spadone, nelle località vicino a Roma è più basso si raccoglie tra settembre e ottobre.

Coltivazione del grano

Il terreno preparato è tracciato: la tracciatura è quell’operazione che fa l’impresarello (quasi abolito ovunque) o il capoccetta e consiste nel dividere rettamente le riserve in tante strisce dette prese (porche) larghe metri 6, 4 o 2 e che, a seconda della varia larghezza, comprendono 9, 6 o 3 solchi ciascuna. Si semina alla volata (ora però si adottano dai più le seminatrici, con molta economia ai seme e di tempo; ve ne sono di vari sistemi e si vanno sempre più perfezionando), operazione condotta dai sementarelli, operai che vengono quasi tutti dei dintorni di Rieti, i quali percepiscono dalle 60 alle 70 lire mensili, lavorando dai primi dell'ottobre al Natale e, solo in alcuni luoghi e per quelle specie di semenze dette marzuole, e sino alla fine di gennaio. Per la quantità di seme occorrente ad ogni ettaro di terreno non vi ha una regola assoluta ciò dipendendo dalla natura del terreno e dalla qualità del seme, in base alle quali, solamente il fattore intelligente ed esperto dovrà regolarsi. È bello vedere un campo in piena semina: là i taciturni aquilani che lavorano di pala, qua i bifolchi che cantano ...e bestemmiano. E i guitti che si sgolano coi loro ritornelli interrotti dalle risate argentine delle ragazze a qualche troppo spinta allusione; e i comandi burberi e sgarbati dei fattoretti, ai quali risponde, quasi in senso canzonatorio, il monotono foraa fooo.... ! dello scacciacornacchie (lo scacciacornacchie è un ragazzo che, come l’indica il nome, ha la funzione ai tener lontane le comacchie e i corvi dai campi in cui è stato ai recente sparso il seme). È armato di un vecchio secchio o di una latta vuota di petrolio e vi batte sopra incessantemente con due pezzi ai legno, come fosse un tamburo, mentre grida di tempo in tempo: “Fora.....fooo…..” e fra tutto quel movimento e quella vita si aggira, or qua, or là, il vigile fattore al passo allegro della sua cavalcatura. Man mano che progredisce il lavoro di semina i guitti operano la ribattitura, il qual lavoro consiste nell’accomodare il solco o spianare la porca nettandola dalle erbacce, o asportandole dal seminato o ammucchiandole in maniera che non impediscano al seme di germogliare. Per i terreni ben preparati, a solchi, occorrono dalle 10 alle 12 opere[5] per ettaro; dalle 7 alle 10 per le terre lavorate a porche e fino a 30 e più per i cosiddetti rotticcioni, i quali consistono nella semplice rompitura del terreno seminando, poi, sulla terra rivoltata. In più luoghi ora il guitto viene in questa lavorazione surrogato con l’erpice; ma per il fruttuoso lavoro dell’erpice occorre che il terreno sia accuratamente preparato. E pensare che oggi vediamo in qualche luogo lavorare l’erpice in campi dissodati a rompicollo, dove l’ordigno procede a sbalzi e a casaccio per l’ineguaglianza e la durezza delle zolle. Alle 9 del mattino, il brusio: “fate sacco!” del fattoretto segna l’ora dell’asciolvere[6]; il comando è ripetuto alle 2 pomeridiane, e nei due pasti i guitti hanno un’ora e tre quarti di riposo. Ogni squadra di nove aratri, che solca il terreno per la semina, è chiamata catena; appresso, poi lavora trasversalmente un altro aratro, detto carracciaro il quale traccia appunto quei carraccioni, quelle accoppiature e carrarecce necessarie allo scolo delle acque e al transito delle carrozze per il trasporto della messe. Quando le pianticelle del grano hanno raggiunto un certo sviluppo, si fa la “terra-nera”; si rincalzano, cioè dai guitti con della terra la quale è lavorata asciutta con dei piccoli zappetti, che servono, pure, a dar la botta-morta, a schiantare d’un sol colpo alle piante parassite, da seme o da fusto; nel dare la botta-morta deve badarsi a non danneggiare la pianta del grano e a rincalzare con l'occhio del zappetto la terra intorno alla medesima ove, per il colpo, se ne fosse allontanata. Con questa lavorazione scema la paga al guitto e da lire 1,05 (queste paghe sono aumentate di circa 30 centesimi al giorno) 1,10 va ai 95 ed anche ai 70 centesimi. La “terra-nera” ha lo scopo, in alcuni casi, ai arrestare l’eccessiva vegetazione della pianta, per un certo tempo, la quale andrebbe, poi a detrimento della sua produzione, ed in altri di aiutare lo sviluppo delle piante; è, forse, la lavorazione più importante e il mese opportuno per eseguirla è quella di gennaio, donde il proverbio: Terra nera di gennaro, empie il granaro. Anche in questo lavoro il guitto può venire surrogato dall’erpice, in certi casi.

La mondarella.

Questa lavorazione è da taluni trascurata, male eseguita o, addirittura, omessa. È, certo, quando debba farsi alla peggio, e l’occhio del fattoretto non invigili i guitti, meglio varrebbe il tralasciarla; poiché, avendo luogo nella piena vegetazione della sementa e consistendo nello sgombrare le piante dalle erbacce e dai rovi, ove il guitto non proceda curvo, non badi a scansare i grani, ma cammini e lavori all’impazzata, perché, mal sorvegliato e mal guidato, ne consegue un grave danneggiamento della piantagione. È necessario, altresì, toglier via accuratamente tutte le erbe pungenti, le quali, oltre a pregiudicare il prodotto, fanno si che il mietitore preferisca lasciar cadere le spighe piuttosto che pungersi e graffiarsi le mani. Per questa lavorazione s’impiegano dalle 3 alle a opere per ettaro, fatta eccezione per i terreni ingombri d’erbe minute e che abbiano sofferto per le molte piogge. Ma — torno a ripeterlo — questa operazione è, spesso, trascurata. Molti si attengono alla massima fatalista del "butta in terra e spera in Dio" senza pensare che la terra risponde: “Come mi suoni ti ballo!”. E l’agricoltore, che ha suonato alla male e peggio, all’epoca del ballo — vale a dire alla mietitura, e all’ara — si accorge, quasi sempre, di aver perduto il tempo..... e non il tempo musicale

La mietitura

Ecco un lavoro allegro e pieno di straordinaria animazione; poiché essendo i tagli — cioè le compagnie di lavoranti — composti d’ambo sessi e di ogni età, i canti e i frizzi mordaci s’incrociano da una gavetta all’altra, mentre le zampogne, o i tamburi o gli organini suonano a distesa marce e ballate. Per questa lavorazione non vi è gente fissa, perché i tagli - composti dalle 100 alle 125 persone per ciascuno - sono reclutati tanto fra i guitti che fra i contadini del Lazio, della Sabina, dalle Marche e degli Abruzzi. La mietitura vien fatta entro il periodo di 11 giorni, a cottimo, e il prezzo del cottimo varia a seconda della distanza in cui si trovano le tenute dai centri abitati e malaria che vi domina; cosicché, mentre ad Ostia, Maccarese ecc. si pagano L. 25 per ogni persona e la metà ai ragazzi - detti, granaroli - a San Cesareo, Pallavicina, Passerano, ecc. si pagano lire 18 o 19. Questi prezzi sono alquanto aumentati. Ecco come presso ai noi si eseguisce la mietitura. I mietitori, giunti in tenuta, rizzano delle baracche sul terreno sodo, e possibilmente nel centro della sementa. Ogni mattina, fra le 2 e le 3 (se oggidì andate a quest’ora vi prendono a bastonate), il sotto-fattore, o guida-taglio, dà l’alto per avviarli al campo; ma quanti preghi, quante bestemmie e quante minacce debbono usare per convincerli ad attaccare il lavoro! Poiché se nell’inverno le opere fanno da pecore, alla mietitura, invece si mutano in leoni: sanno che il padrone è alla mercé loro, per la raccolta del prodotto - raccolta che non può essere ritardata perché, quando il grano è giunto a quel dato punto di maturazione se non si miete subito, comincia a cadere e va in parte perduto, - le stranezze quindi che commettono, le pretese che affacciano si seguono senza numero e senza misura! Giunti, una buona volta al campo, il capo-falcia spacca, apre, cioè, la strada agli altri; lo staccone - il primo mietitore di tutto il taglio - gli tien dietro con la sua gavetta, e così via, via appresso le une alle altre. Il capo gavetta[7] miete e fa il balzo - che consta di due mazzi di spighe congiunte insieme per legare la gregna[8] – gli altri due mietitori mettono la messe sul balzo, e il legarino le lega; e, frattanto, i fattoretti, a cavallo e tutti agghindati, lanciano i loro comandi e le loro osservazioni: “Balzi spesso, capo gavetta! Posate a balzo! Stringete la mano alla brancata! Attenti a non fare la spagliacciata! Ripigliate la scappatura al compagno! Abbassate la spalla destra e sotto con la punta del ferro! Non scatenate!” E così ai legarini: “Pareggiate bene la gregna! Spingetela col ginocchio! Legate forte la gregna! Fatele fare la vita da zitella! Ecc. ecc. I granaroli incollano le gregne a barile - a spalla - le dispongono a intervalli regolari, in fila le une sulle altre per formarne le cosiddette casole o cordelli: le casole si compongono di tre file di gregne diritte e due sopra, a traverso, dette copertine, l'ultima delle quali, con le spighe rivolte verso la levata del sole. Lavorando si giunge alle 7 del mattino, e, allora, se il porta-spese, indugia anche per poco, cominciano i brontolii: “L’avranno ammazzato! Sarà cascato a fiume! ......” Se, poi per il trasporto dell’acqua vi è una donna - acquaiola - .....allora chi più ne ha più ne metta! Finalmente spunta il ritardatario e allora: “Eccolo! Eccolo!…” è un urlo selvaggio e prolungato che si sviluppa da tutti quei petti…. Dico meglio, da tutte quelle pance affamate “Parolaaa!” grida il guida-taglio e le gavette abbandonano il lavoro, adunandosi per il pasto in gruppi più o meno numerosi, a seconda dei gradi di parentela o di amicizia, che unisce tutte quelle persone Hanno luogo quattro pasti al giorno – quello della sera, però alle baracche -; anzi, spesso, anche a mezzogiorno le opere sono portate a mangiare alle tende….. ed allora per ricondurli al lavoro ci vuole la mano di Dio! Coi quattro pasti il mietitore ha quattro fogliette di vino — due litri al giorno — però discretamente adacquato, quattro libbre (circa 1,3 Kg.) di pane e ottanta grammi di grascia (grasso, sugna). Adesso ne hanno mezza libbra (160 grammi). Durante, poi, lo staglio - quando cioè, ricevono il pagamento - hanno luogo altre scene caratteristiche, scene di litigi, di pettegolezzo e canzonature. La mietitura, insomma, è la bestia nera del povero fattore, che per tenere a dovere tutta questa gente, fra le quali vi è, spesso, della canaglia, deve sudare quattro camicie, sempre, qualche volta minacciare a mano armata, e non di rado domandare l’intervento dell’arma benemerita. Intanto i mietitori, finita l’opera e ricevuto il pagamento, s'incamminano a gruppi e, magari, processionalmente, o verso Roma o verso i loro paesi, maledicendo il padrone, lamentandosi della scarsa mercede e suonando gli organini e le tamburella.

La trebbiatura.

Finalmente siamo giunti all’ara, attesa e desiderata dai padroni e dai servi: dai padroni per rifornirsi le tasche, dal personale, anche, per guadagnare qualche soldo. Una volta le messi si facevano battere dalle zampe dei cavalli ed erano in vigore altri sistemi per il lavoro, per le spese e per le paghe occorrenti al periodo dell’ara. Ora, invece, s’impianta la macchina (la prima trebbiatrice fu fatta costruire su disegno di Luigi Canina, nel 1840, da D. Francesco principe Borghese, e sperimentata nella tenuta di Pantano Borghese - C. De Cupis – “Le vicende dell’Agricoltura e della Pastorizia nell’Agro Romano”), le gregne vengono dai bifolchi trasportate sul posto con le barrozze, e per mezzo di uomini addetti il prodotto vien fatto passare nella bocca della trebbiatrice, i vari sbocchi della quale danno, separatamente, il grano pulito, quello di seconda qualità, la paglia e la cama. E questo è tutto il lavoro. Al funzionamento della macchina provvedono un macchinista ed un fuochista, i quali, tempo addietro percepivano una mercede giornaliera di L. 10 il primo ed il secondo L. 5, oltre ad un buon vitto, adesso, invece, che a questi servizi sono abilitate persone senza numero la retribuzione è scemata sensibilmente per l’eccessiva concorrenza. Alla macchina sono anche adibiti, per il servizio del combustibile, uno spacca legna ed un acquaiolo. Il mercante, che ha la trebbiatrice e la locomobile di sua proprietà, spende per la sola gavetta[9] circa 60 centesimi per ogni quintale di genere[10]: chi, però, è costretto a noleggiare il tutto, è gravato di una spesa non minore delle lire 2 al quintale. Anche questa spesa è un poco aumentata. Nelle tenute vicine ai paesi, le opere per questa lavorazione sono requisite negli abitanti stessi; nelle tenute più lontane, come Ostia, Porto, Maccarese, Palidoro ecc. fanno la trebbiatura le cosiddette compagnie della leggera, che vengono dai caporali reclutate fra gente di tutte le specie, e non sempre della migliore. E' nelle are dove sta la leggera, che il cupo ed affannoso brontolio della locomobile è interrotto dai lazzi e dalle curiose grida di tutta quella strana accozzaglia di straccioni: “Er cerinaro! ...Er Messaggero!  Polimò! .....Bruscolinaro! .......- Queste ed altre simili parole si succedono in un frastuono assordante, rivelando, così l’ambiente della loro vita. Durante il lavoro deve osservarsi se il grano sia spaccato o eccessivamente sporco o se vada perduto fra la paglia e la cama: ai quali tutti inconvenienti si provvede modificando il movimento e la posizione dei vagli ventilatori o dei cilindri. Se la stagione sia umida è prudente di rizzare un cantiere per rimescolare spesso il genere, affinché arieggiandolo, si asciughi bene; altrimenti si carica ogni giorno sui veicoli per trasportarlo o dall’acquirente o nei propri granai. La paglia si pressa a mezzo delle pressatrici e le balle pressate e legate con fil di ferro per mezzo della macchina stessa, si ripongono in luogo coperto. Prima si usava, ed in qualche posto si usa anche oggi, di accumulare la paglia, non pressata, in grandi mucchi detti “pagliare” lunghi dai. 15 ai 20 metri larghi dai sei agli otto ed alti in proporzione; alla cama per lo più si dà fuoco. Con la trebbiatura termina la serie dei lavori che riguardano la sementa ed è allora che si pon mano ad un altro lavoro, quello delle roste, diretto a preparare il terreno per la nuova semina.

Le roste

Fino a qualche tempo fa si usava ed, in parte, si usa anche adesso dar fuoco alle stoppie dopo ultimati i lavori dell’ara e cioè verso la metà d’agosto. Questo sistema era ritenuto molto utile sia perché distruggeva gli insetti nocivi all’agricoltura, sia perché la poca cenere che rimaneva dopo bruciate le stoppie serviva di concime al terreno per le coltivazioni future. Ora in molte tenute la stoppia è falciata per essere utilizzata nell’inverno come strame per il nutrimento del bestiame bovino. Nei posti dove si usava dar fuoco alle stoppie occorreva che l’operazione fosse fatta in modo da impedire che il fuoco si appiccasse alle staccionate o ai fienili o producesse altri danni. A tale scopo si facevano le roste, vale a dire si raschiava il terreno con zappe larghissime e ricurve, intorno alla riserva già mietuta: la stoppia così sterpata era portata indietro e accumulata ad una distanza di circa una canna (la canna romana misura m. 2,234). E’ l’unità di misura ancora usata per la misurazione dei fienili, pagliare, ecc. dalla staccionata in modo da formare una linea parallela alla staccionata stessa, detta cordone: tra il cordone e la staccionata rimaneva una zona di terreno zappato, che formava argine al propagarsi delle fiamme. Si dava quindi fuoco alle stoppie, in vari punti, cominciando dal cordone che era incendiato a fuoco morto cioè contro vento. Il lavoro delle roste era eseguito da contadini nativi di Arsoli, Marana Equo, Agosta e paesi vicini e si pagava delle 35 alle 50 lire per ogni mille canne, ossia per ogni duemila metri quadrati, circa, essendo, come si è detto, la rosta larga una canna. Le roste destinate alla protezione dei fienili si pagavano qualche cosa di più, perché eseguite su terreno sodo e quindi più duro. Questi contadini, detti zampitti venivano anche impiegati dai vignaroli romani per rinfrescare la vigna in agosto: non era pertanto difficile incontrarli, a gruppi, in Roma, ove formavano la clientela di quegli osti di infimo ordine detti “bujàccari”. Ora non si vedono più, perché, anche in quei posti in cui si usa ancora bruciare le stoppie, in luogo di falciarle, il lavoro delle roste si fa cogli aratri.

I prati.

Accenneremo ora brevemente alla coltura dei prati, incominciando dalla

La falciatura

Siamo al mese di maggio: i prati già sfrustati, nettati cioè da sassi, sterpi e di quant’altro può riuscire d’intoppo alla falce, si mostrano nel pieno della loro vegetazione e propriamente a quel punto di maturità che è richiesto per la falciatura. E’ di somma importanza il decidere il momento della falciatura, poiché, se non vi si pone mano a suo tempo, il fieno non è buono che relativamente, sia per il bestiame che per il commercio, perdendo fragranza e sostanza. Molti fattori, per seguire la volontà dei loro padroni, si preoccupavano della quantità e non della qualità del prodotto, ma a torto, poiché, se lo vendono, il prezzo minore non è compensato dalla maggiore resa, e, se lo consumano per i bisogni dell’azienda, specialmente per i buoi da lavoro, ne va via il doppio. La falciatura è eseguita non dai guitti, ma da speciali compagnie, le quali lavorano dall’alba al tramonto, cibandosi di pane e cipolla ed abbeverandosi di acqua e aceto. Potrebbe credersi che questo meschino elemento fosse una conseguenza di scarsa retribuzione; ma, invece, il falciatore guadagna dalle 4 alle 6 lire al giorno e, se fa risparmi, ciò è con l’unico scopo di riportarsi il gruzzolo al paese. E’ questa un’economia esagerata, condivisa da parecchi altri lavoratori delle nostre campagne, e da quelli, propriamente, che son soliti, all’estate, di recarsi alle loro montagne. Il campagnolo, propriamente detto, della campagna romana — quello fisso — con un simile vitto non potrebbe superare la stagione della malaria e vi lascerebbe la vita. Il chinino e le reti metalliche contro le zanzare sono ottime misure profilattiche i cui risultati sono oramai troppo evidenti per poterne dubitare; ma non bastano se non sono coadiuvate da un cibo sano e nutriente atto a riparare le perdite prodotte all’organismo dal faticoso lavoro della campagna. E si sa che quanto più l’organismo è debole tanto più è soggetto al pericolo di ammalarsi. La falciatura richiede due opere per ettaro, ma è lavorazione che si eseguisce a cottimo, per circa lire 7 all’ettaro. Il bravo falciatore dovrà dare i colpi a corto, acciocché ogni botta porti tutta l’erba tagliata alla passata; la falce dovrà avanzare a mezzaluna, rasando bene il suolo, ciò che si ottiene coll’abbassamento della spalla destra, e non lasciando, così, la spalletta al compagno. Lasciare la spalletta significa limitare il raggio d’azione della falce in maniera che, a lavoro finito, rimangano delle strisce d’erba non tagliate. Oggi, anche qui, la falciatrice ha facilitato di molto il lavoro, e viene sempre più generalizzandosi il suo uso nelle nostre campagne.

La raccoglitura

Quando il fieno falciato assume il colore del piombo allora è al punto giusto per venire raccolto, e vi si deve procedere con sollecitudine al momento poiché trapassato questo, il foraggio perde ogni sostanza. Al lavoro di raccoglitura sono adibiti i guitti i quali ricevono dai caporali, a cottimo, lire 4,50, anche onesta paga un terzo di aumento, circa per ogni ettaro. Le gavette sono formate da sei uomini e tre ragazzi: i primi, muniti di forcine, accumulano il fieno in grossi mucchi, i secondi con grandi rastrelli di legno procedono alla pulitura dei prati.  Non vi è bisogno di accennare agli ottimi risultati che si ottengono coi rastrelloni, oggi quasi universalmente adottati in quei terreni la cui ubicazione si presta per l’uso di tali strumenti. Ugualmente utili sono i voltafieno.  Checché ne dicano certi retrogradi la meccanica agraria ha fatto passi giganteschi e più ne farà, speriamo, col progredire del tempo. I mucchi sono riparati da due torticchi di fieno in croce, acciocché il vento non disperda il prodotto.

I fienili

Quando il fieno è rimasto in riposo almeno otto giorni si formano i fienili. I fienili sono composti da compagnie d’ogni specie di dieci persone ciascuna, le quali hanno differente mercede proporzionata alla grossezza del fienile. Il fienile è di forma conica, largo e rotondo alla base e terminante in punta nella sua altezza; dopo ultimato, la sua circonferenza a petto d’uomo è misurata a canne romane (due metri circa).  Ogni fienile può contenere dai 300 ai 600 quintali e più: per erigerlo si pianta l’anima stanga diritta, lunga, preferibilmente di castagno in un luogo opportuno designato dal fattore; tre bifolchi con due buoi ciascuno, trascinano i mucchi del fieno, i quali sono ammassati con delle forcine di legno intorno all’anima mentre lo spongarolo provvede man mano ad arrotondare il volume crescente.  Quando, per l’altezza, le forcine sono insufficienti, allora si piantano il giudice e la bilancia, e per mezzo di questo congegno si manda su il fieno a fasci, fino a completare la massa. Il fieno non deve avere alcun grado di umidità, e perciò si lavora quando è bene asciutto della rugiada. Terminati i fienili, il facocchio[11] li recinge di staccionata. Taluni sogliono, con una spesa di circa venti lire, ricoprirli con delle stoppie o paglie di mare per preservarli dalle intemperie: e questa è ottima precauzione. Oltre a ciò se ne porta, di fieno, una gran quantità nelle immense cascine che stanno fuori le porte di Roma. La spesa del trasporto, fatto con ogni sorta di veicoli, si calcola a un tanto al quintale e varia a seconda della distanza. Tutti hanno oggi compreso l’utilità di imballare il fieno e perciò le cascine anziché di fieno sciolto si riempiono di balle. Taluni dei carri marchegiani adibiti a questo trasporto hanno i buoi tutti infiocchettati con nastri di tutti i colori, pelo di tasso e bottoni d’ottone alle cinture, bronzini (rompistivali) gioghi pitturati ecc., e tutto questo per un senso di bulleria cioè di vanità.

I mercanti di campagna.

Abbiamo già accennato che fra i grandi proprietari dell’Agro romano pochissimi sfruttano direttamente le loro tenute e fra essi citiamo a titolo d’onore i Rospigliosi, gli Aldobrandini, i Caetani ecc. La maggior parte preferisce affittarle dietro una corrisposta annua di un tanto al rubbio ai mercanti di campagna i quali esercitano per conto proprio le varie industrie agricole realizzando guadagni più o meno lauti a seconda delle stagioni e della loro previdenza ed abilità negli affari. L’esistenza dei mercanti di campagna è collegata con quella del latifondo; dove il latifondo è stato bonificato, frazionato e messo in valore, i coloni hanno sostituito il mercante.  Una volta, quando le bonifiche e le culture intensive erano un pio desiderio dei reggitori dello Stato, i mercanti di campagna erano, si può dire, i veri padroni dell’Agro romano ove facevano e disfacevano a loro talento: ora però per il lento, ma progressivo miglioramento delle nostre campagne, la loro importanza va diminuendo. Ai lunghi affitti si preferiscono quelli a più breve scadenza, piccoli lotti di terra sono affittati direttamente ad agricoltori che li coltivano per conto proprio senza passare per la trafila del mercante. Si può quindi esser sicuri che in un tempo più o meno lontano, quando le leggi di bonifica avranno prodotto interamente i loro frutti, il tipo del mercante di campagna dovrà quasi scomparire dalla realtà della vita per passare nel dominio delle tradizioni. Sarà un nuovo capitolo della “Roma sparita”. prima quindi che questa definitiva scomparsa si verifichi troviamo opportuno spendere due parole sullo sviluppo e sulla successiva decadenza di questa classe speciale: ciò che ha egregiamente trattato Decio Cortesi in un suo articolo pubblicato sulla Vita Italiana e che qui riportiamo in parte; “Le loro famiglie, quelle dei mercanti, erano mezze aristocratiche, mezzo borghesi e mezzo popolane. La malaria, la poca o punta sicurezza della campagna romana, la scarsezza dei capitali resero sempre impossibile, dopo l’epoca imperiale, la cosiddetta coltura intensiva, e i vasti tenimenti posseduti dalla nobiltà e dalle corporazioni religiose, erano, di solito, dati in affitto a pecorari o carbonari, che li sfruttavano il meglio che potevano e questo sfruttamento era, fino a un certo punto, un bene dizione pei possessori, perché, a questo modo, ne potevano ritrarre qualche utile. Fino dagli ultimi anni del secolo XVII, o, per parlare con più esattezza, da i principi del secolo XVIII, molti di questi pecorari e carbonari, raggranellato un modesto patrimonio, si spinsero fino a prendere in affitto, per lungo spazio di tempo, le intere tenute: crearono vaste amministrazioni, educarono razze di cavalli e di buoi, alcune celebri. la loro posizione sociale crebbe in lustro e splendore per modo che quasi da un cento anni ebbe origine questa nuova classe sociale, come si è detto, né aristocratica, né borghese, che, per le sue relazioni d’affari da un lato, per le sue origini dall’altro possedeva i pregi e i difetti delle due classi. Rassomigliava all’aristocrazia nel sentimento vivace della famiglia, nelle relazioni affettuose e quasi patriarcali coi dipendenti (andateli a trovare più adesso, dico io) in un certo tal quale spirito di braveria e di prepotenza, che i signori non possedevano più, ma che era rimasto in questi allevatori di bestiame che, fino a un certo punto avevano preso il loro posto.  Per la vita modesta che menavano, per la semplicità dei vestiti, per la frugalità dei cibi, per una certa speciale sottomissione ai “signori principi” potevano poi essere annoverati in una classe anche inferiore a quella della cosiddetta “borghesia romana”, composta, in gran parte, di professionisti che menava vita più signorile. Coll’andar del tempo, aumentando la ricchezza, (il seminare il grano nella campagna romana non poteva quasi considerarsi com’esercitare l’agricoltura, era diventata una speculazione: v’erano anni nei quali si guadagnava il doppio del capitale impiegato), queste antiche famiglie di pecorari e carbonai smisero l’antico fare modesto, e le abitudini casalinghe, per prendere, fino ad un certo punto, quelle della società elegante che li circondava. Le loro mogli vollero gioielli e vestiti: quasi tutti misero carrozza; le loro figlie furono poste nei primari istituti, e i giovanotti si attillarono all’ultima moda, e l’istinto avventuriero che li aveva guidati nel fare le pericolose semine di grano con le quali, in tempi in cui non esistevano le assicurazioni, affidavano al suolo un intero patrimonio, che una nebbia poteva distruggere, li spinse a conquistare il loro posto nel mondo, studiandosi di imitare, per quanto era loro possibile, i “signori”. Infatti, in Roma, anche prima del 1870, vi erano famiglie di mercanti di campagna che appena si distinguevano dall’aristocrazia, anzi, se ne differivano, era per la maggior quantità di denaro contante del quale rigurgitavano le loro casse. Molte figliole di mercanti sono andate spose a signori; e tutte, nella nuova società in cui si sono trovate, hanno fatto una figura brillante. Ora questa classe è quasi scomparsa; i ribassi dei grani, i disordini delle amministrazioni, la mancanza assoluta del sentimento borghese del risparmio hanno condotto, tranne le eccezioni, queste famiglie ad uno stato quasi vicino alla povertà.”
I mercanti dell’antico stampo però pochi ne restano e non ne verranno più. La professione passava generalmente di padre in figlio; molte famiglie di mercanti che esistevano ai primi del secolo passato le troviamo ancora nel 1870 e negli anni successivi, quali: Alibrandi, De Lucca, De Cupis, Floridi, De Angelis, Jacometti, Ingami, Del Grande (non credo inopportuno per il lettore, il narrare qui un aneddoto a proposito del valoroso colonnello caduto a Vicenza. Forse qualcuno rammenta che Natale del Grande fu mercante di campagna e proprietario di una vigna eccellente a Tor Pignatara, come del resto in quei tempi beati quasi tutti i mercanti di campagna avevano nel suburbio una vigna, ove invitavano allegre brigate di parenti e d’amici per mangiare, bere, divertirsi ed intrecciare idilli, ove intervenivano anche spesso gli uomini illustri del tempo, ma non tutti sanno bene, che egli era un po’ violento e facile a menar le mani. Cavalcando per le sue tenute soleva portare uno scudiscio, del quale spesso si serviva per accarezzare l’epidermide di qualche servo. Un giorno, dunque, si trovava nella riserva del Fontanile, alla tenuta di Calcaricola, dove aravano alcuni suoi bifolchi e fra questi certo Persentello, di Mentana, un tipo che non si lasciava passare le mosche sul naso. Padron Natale, tutti lo chiamavano così, si avvicinò a Persentello e, gridandogli con la sua sonora voce romanesca: “reggi forte a Persente !” gli affibbiò una leggera scudisciata. Tanto bastò al bifolco che, saltatogli addosso, lo buttò giù di sella e se lo mise sotto: poi siccome frugandosi nelle tasche si accorse di non aver seco il coltello, fece al Del Grande: “a padron Natà hai ragione che nun ciò er cortello si no mò te la passavi fresca”. ...... E il del Grande a bestemmiare dicendo: “lasemme Persentè, lasseme Persentè !” finché il bifolco non lo lasciò davvero. Terminato il lavoro Del Grande fece chiamare Persentello alla vigna ed invece d’una punizione, come il villano poteva aspettarsi, lo fece ubriacare, addirittura, del suo migliore regalandolo, altresì, di tre scudi. Manzi, Narducci, Polverosi e Trojani: alcune di queste famiglie antiche di mercanti si sono conservate anche ai giorni nostri come Mancini, Serafini, e Santini. quanti cambiamenti in un secolo! Un mercante che davvero si occupava della campagna con intelletto d’amore fu il compianto Achille Mazzoleni scomparso tragicamente molti anni fa; la cui morte coincise per così dire con quella dell’agro romano; intendo dire di ciò che dell’agro costituiva la spiccata caratteristica. Fu poco dopo il 1850 che cominciò a svolgersi la fortuna del Mazzoleni in seguito ad una eredità ricevuta da un parente. Si slanciò egli, allora, nelle speculazioni agrarie e, assistito da un successo tanto perseverante, quanto meritato, in breve tempo si distinse fra i mercanti più facoltosi. La sua attività ed iniziativa furono fenomenali, addirittura nessuno come lui ebbe mai quantità maggiore di bestiame, né un maggior numero di tenute contemporaneamente in affitto. Distinto ed onoratissimo egualmente fu il Mazzoleni nella vita pubblica. Prima del 1870 fece parte dei vari comitati patriottici segretamente organizzati in Roma: dopo, poi, sedette nella Giunta Provvisoria di Governo e, successivamente, nei due Consigli, Comunale e Provinciale e, nella XIII legislatura, rappresentò il collegio di Subiaco, militando nella sinistra fra i più validi fautori di Benedetto Cairoli. Oggi di personalità cotali nella classe dei mercanti non ne rimangono più: e i migliori, come Silvestrelli, Senni, Grazioli, ecc. hanno preferito di ritirarsi dagli affari, lasciando libera la piazza all’invadente generazione degli odierni traffichini. Vi è, ancora, qualche mercante di vecchia e sperimentata pratica, il quale vuole invigilare, direttamente da per sé, sopra tutta la sua azienda: e fa benissimo! Ma se ne contano mille, però, i quali si affidano in tutto e per tutto ad un vergaro o massaro qualunque: e quest’accentramento di tutta l’azienda nelle mani di un solo conduce a sicura rovina, poiché un massaro non s’intende di biade e di grani, come un vergaro di buoi, come un fattore di pecore e di porci. Questi accentramenti succedono anche perché i diversi capi d’azienda si odiano cordialmente e cercano di darsi lo sgambetto, un coll’altro, con arti gesuitiche e ipocrisia raffinata. I padroni non avveduti, che bevono grosso, cadono quindi, facilmente nella rete. Ne conosciamo tanti! “A ciascuno il suo mestiere”: questa dev’essere, nella campagna specialmente, la massima predominante, e i nostri vecchi mercanti hanno sempre voluto che ciascuno, a seconda della diversa capacità e del differente mestiere, si avesse le sue attribuzioni con le corrispondenti responsabilità. Oggi, purtroppo, tutti i padroni si pongono attorno qualche factotum o mezzaiolo, che, per occuparsi di tutto, rovina tutto: ed è così che si viene distruggendo l’autonomia delle varie aziende e, di stretta conseguenza, la loro regolare gestione e prosperità. Tanti capi d’azienda bisogna che s’inchinino e chiudano gli occhi (tante volte neppure giova) davanti a questi messeri se non vogliono essere sbalzati di sella e sostituiti da qualche beniamino del mezzaiolo. La semplice, eppur tanto grandiosa gerarchia delle nostre campagne è andata in fumo: sono spariti aziende e capi d’aziende e sono purtroppo spariti i padroni, i quali, interessando i mezzaioli alla loro intrapresa, son divenuti dei soci, né più né meno. In questo contratto di società è il mezzaiolo che si fa la parte del leone, perché mentre si conserva la partecipazione agli utili della semina, utili quasi sempre rilevanti e sicuri, lascia poi interamente al mercante tutti gli altri negoziati dell’azienda che meno fruttano e riescono di maggior rischio e fastidio per depositi, manutenzioni e altro. Molti di questi mezzaioli un tempo erano semplici caporali: reclutavano cioè gli operai occorrenti durante il tempo delle lavorazioni e li fornivano ai mercanti di campagna speculando sulle loro magre mercedi: potevano così raggranellare delle somme colle quali presero dai mercanti dei pezzi di terra da seminare e, a poco a poco, come da caporali si erano trasformati in mezzaioli così buona parte di loro poté da mezzaioli trasformarsi addirittura in mercanti autentici.... E’ inutile far nomi. Bisogna però notare che la fortuna di questa gente non è dipesa soltanto dall’aver saputo sfruttare i loro compaesani in quei tempi beati in cui ogni sopruso era lecito a danno dei lavoratori, perché i gattini non avevano ancora aperto gli occhi...... Alla loro ascensione ha contribuito.. (e come) la connivenza di qualche amministratore dei signori principi romani. Ed è così che si spiega come certuni abbiano potuto, in un tempo relativamente breve, formarsi una posizione invidiabile cui difficilmente suol provenire chi non ha altra risorsa se non il frutto di un onesto lavoro. Ma d’altra parte se alcuni furbi o fortunati dal nulla giunsero all’agiatezza, quanti altri si sono visti fare il cammino opposto, da mercanti divenir soci dei loro subalterni e poi cedere a questi definitivamente il posto, andandosene in rovina ? E il fatto si capisce facilmente. Prima nell’agro romano giravano i capitali e non le cambiali, e i mercanti d’una volta non si lasciavano abbattere da una stagione cattiva e amavano tenersi tutto per sé, tanto i profitti, quanto le perdite. Adesso al contante sono succeduti i mezzucci e gli espedienti e qualche affittuario prima di far terra-nera, il grano già se lo è venduto e mangiato da un pezzo.

I Fattori.

Il fattore è il capo dell’azienda del campo, e da lui dipendono tutti gli addetti alla medesima, il capoccia coi bifolchi, i guitti, gli aquilani e tutte le altre cosiddette opere[12] e il guardiano della tenuta. Egli provvede ai vari lavori della campagna e suole, anche, tenere i conti e tutta la piccola amministrazione rurale quando, beninteso, non sia analfabeta: e di tali, specialmente un tempo, ve ne erano parecchi! La prosperità di un’azienda campestre dipende, in gran parte, dalla perizia di questo agente principale: al fattore spetta il saper comandare i vari lavori di coltivazione al momento opportuno; e quante volte una falciatura anticipata o una mietitura ritardata non hanno compromesso un superbo raccolto! Guai, dunque, a quei mercanti soprattutto, poi, se novellini e mal pratici, che si affidano a fattori inetti e disonesti: essi corrono a sicura rovina. Oggi, di fattori improvvisati, epperciò mal pratici, ve ne è a dovizia, né è raro il caso che un semplice vangaterra od un massaro mediocre si spacci per fattore e trovi un mercante disposto a credergli e ad affidargli l’azienda. Povera azienda posta in siffatte mani. Negli ultimi tempi poi è aumentata un’altra categoria di sedicenti fattori; quella dei militari pensionati e ve ne è di tutti i gradi, dal brigadiere al capitano e persino al colonnello. Alcuni mercanti, anch’essi improvvisati, hanno creduto ottimo consiglio valersi di questa gente per dirigere l’azienda la quale è così amministrata con disciplina militare, è direi quasi militarizza. E guai a chi parla ! Guai a chi si arrischia a fare un’osservazione dettata dall’esperienza e dal buon senso; corre rischio d’essere “sgnaccato” in prigione…… volevo dire licenziato. Tutta questa gente ha il vantaggio di costar meno; le sue pretese sono minori di quelle dei fattori degni di questo nome e questa insolita discrezione, queste offerte di concorrenza, che dovrebbero anzi insospettire l’avveduto mercante, il quale sa che in fattore onesto ed abile vuol essere pagato per quello che vale, queste miti pretese diciamo, e la ciarla, soprattutto, sono, invece, spesso una possente lusinga e per un falso criterio d’economia, si annuisce e, quindi, succede quel che succede. I nostri fattori hanno molto migliorato in quanto ad istruzione civile, e, quale più, quale meno, tutti oggi sanno muover la penna: in fatto di mestiere però, oggi vengon su dei tipi che disprezzano e trascurano gli antichi sistemi, e questo sarebbe sintomo di progresso, ma, in compenso, sanno poco dei metodi moderni; e questa è ignoranza bell’e buona! Dobbiamo, quindi, convenire che, molto probabilmente, si stava meglio quando si stava peggio: e questa, pure, è vergognosa confessione, che s’avrebbe a schivare ad ogni costo. Ricorderò alcuni fattori ignoranti e caratteristici che avevano dei quattrini. Tanlongo n’aveva uno detto Frà Rocco, certo Achille Farrocco di Cerro al Volturno, in Campobasso; questi, benché analfabeta, era l’occhio destro del Sor Bernardo. I bifolchi, Farrocco, li chiamava “agliemalo” (animali). I fratelli Ferro avevano un tale, il quale, fra i buoi, due soli ne conosceva, uno, con un corno ritorto in avanti, detto fammelume, l’altro con un corno spuntato, chiamato mezzalancia; e spesso gli capitavano coi bifolchi dell’azienda, dei dialoghi di questo genere: “fattò, chi attacco?” “attacca... aspetta ‘n po’; attacca Fammelume e Mezzalancia” “l’hanno già attaccati, fattò” “E chi li ha attaccati?” “l’ha attaccati il tale.” “Mbe’ dallora va a morì ammazzato: attacca chi te pare, sà ?!”.... Un altro tipo originale, morto da parecchi anni, era al servizio del povero sig. Nino Rotti, mercante antico e provetto. Questo fattore, senza un briciolo d’istruzione, era il più buffo soggetto che si possa immaginare. La sua caratteristica stava tutta nel modo di parlare. L’incontrammo una volta in Roma e ci disse a bruciapelo: “E’ vero che m’avessi fatta a satra? ” (satira). Finirò con uno che ha fatto il fattore con una Casa di Palestrina per oltre venti anni. Non sapeva né di lettere né di contabilità, ma viceversa era un fedele suddito di Bacco. Questi poneva ogni studio nel cambiare, addirittura, i connotati d’ogni vocabolo italiano. Profunito, per lui equivaleva a perfezionato, fùstico a selvatico, rozzo, oririnario ad originario, innocissimo ad innocente, darra a tara....e così via di seguito. Questi erano i fattori d’una volta: quelli d’adesso lo ripeto, se si fanno notare non è per queste goffaggini. Ed in mezzo ai malpratici, ciarloni ed indelicati ve ne sono, però, molti buoni e speriamo che questi si moltiplicheranno nell’avvenire per il bene e per la prosperità della nostra campagna.

I bifolchi

Come s’è accennato parlando delle lavorazioni dalla terra alla sterpatura segue la rompitura, vale a dire l’aratura colla quale si preparano i campi a ricevere il seme: quest’operazione è affidata ai bifolchi, sui quali vale la pena di spendere due parole. Il bifolco è ciarliero, buontempone e sopratutto pigro. La sua pigrizia è addirittura proverbiale. Spesso avvengono fra loro dialoghi di questo genere: “Eh Trò!” (Trò per Troia, compagno) “Ahò?” “Perché non famo l’acquacotta?” (il cibo più in uso fra i lavoranti dell’agro romano. Si prepara cocendo delle erbe nell’acqua e bagnandovi del pane che si condisce con olio crudo) “Eh, famola” “Cò che la famo?” “Va a fà un po’ di mentuccia, che la famo cò quella!” “Troia mio, vacce tu, ch’à me me dole tanto sta gamba che nun ne pozzo muove” “Tuu? e figurete chi te sente. Io tengo un dolore qua che me fa strillà Caino” e finiscono per non farne nulla. Narrano pure di una principessa di una nota casata romana, la quale, soffermatasi presso ad una casetta di bifolchi, trovò quei messori tutti beatamente coricati sulla rapazzole, ed il sole erasi già levato da un pezzo! Come ella seppe poi da un suo servo che ciò accadeva per l’innata indolenza di quei campagnoli, spinta da curiosità, disse che avrebbe premiato quello, fra loro, che più sollecitamente levandosi, si fosse a lei presentato. Naturalmente “all’idea di quel metallo”, che se è aspirazione dell’intera umanità per i buoni rusticani, poi, costituisce la preoccupazione assorbente della loro povera vita, tutti quei bifolchi si tolsero, più o meno in fretta dai giacigli… tutti meno uno! “E voi, non vi muovete?!” gli domanda la principessa. Se volete darmi il regalo....l’aspetto qua rispose il bifolco, e fu egli il preferito. In questa classe di lavoratori trova, spesso, rifugio il rifiuto della società: vi potrete trovare il ladro, l’omicida, il forzato in rottura di bando. Rammento di aver veduto fra i bifolchi persino due seminaristi.... sicuro ! i quali avevano preferito di guidare i buoi piuttosto che essere guidati dall’ascetica disciplina dei loro direttori spirituali e dei loro prefetti di camerata. Narrano, poi, che nelle tenute di Conca e Campo Morto proprietà, allora, di enti ecclesiastici vigeva un tempo la cosiddetta Franchigia, cioè l’impunità per i vari delitti: sembra, quindi, che, per questa ragione, specialmente i bifolchi, fossero là numerosi oltre ogni dire. Immaginate ora, voi, quali aziende esemplari dovettero essere le sunnominate! E là, difatti, si ricordano nomi famigerati, come quelli di Ventresca di Popoli, di Cencio di Vetralla, di Mauro di Valmontone e di Pasqualino Fontana. Furono, appunto, questi quattro messeri che fecero scempio orribile della fattoressa della tenuta, bellissima donna, dopo averla costretta ad ogni loro voglia. Vero è che, in appresso, la giustizia si prese la sua rivincita, poiché il Ventresca fu fucilato a Popoli e credo che gli altri subissero la medesima sorte a Velletri. Adesso, beninteso, di franchigia non si parla nemmeno più: ma è un fatto che questa specie di campagnoli rimane sempre la più strana accozzaglia di caratteri, di tipi e di coscienze; dalla quale però, ò giusto confessarlo, salta fuori un ambiente di vita sì pacifica e primitiva....da disgradarne i patriarchi del Vecchio Testamento.  Al mattino, di buonissim’ora, i bifolchi vanno al campo e, non di rado, per giungervi devono percorrere una distanza di quattro, cinque chilometri e anche più; là giunti si attacca si aggiogano, cioè, i buoi all’aratro e s’incomincia a lavorare il terreno. Lavorando, chi canta, chi burla e chi fa il taciturno: quasi tutti, però si trovan d’accordo a bestemmiare o per il freddo o per il caldo, a seconda della stagione, e per l’ordegno - l’aratro - o per la pioggia, o per le mosche, o...., se proprio la natura e le circostanze non lasciano nulla a desiderare, per il padrone. Terminate le ore di lavoro, che dovrebbero essere sette, si stacca, si scioglie, come dicesi in campagna, e tutti si avviano verso la casetta; cammin facendo, intanto, i meno pigri si soffermano a raccogliere ramolacci e cicoria per l’acqua cotta. Come sono arrivati, poi, si affaccendano a porre al fuoco le pentole e i caldai, e, siccome i focolari, troppo angusti, non possono soddisfare ad un tempo stesso le esigenze di tutti, allora avvengono i litigi “la scarda”, come dicesi in vocabolo rusticano per avere la precedenza nel farsi quel boccone di minestra. Ma frattanto annotta ed allora i bifolchi amano indugiarsi presso il fuoco, d’inverno, raccontandosi scambievolmente una filastrocca di fiabe e di stramberie a base di streghe e di maghi, in altre parole i più corretti e civili divertendosi a dir male del Capoccia, del fattore o dei padroni. Prima i bifolchi avevano uno stipendio mensile che variava dalle 10 alle 25 lire, più il pane e la “grascia”, ora percepiscono circa 65 lire: in queste però ci sono compresi i lavori del fieno e dell’ara e..... l’ozio forzato. Le paghe poi variano perché nelle tenute limitrofe ai paesi si ha sempre un po' di meno. Il loro letto (si dice: rapazzola) si compone di due cavalletti e due tavole di legno, un pagliericcio e una coperta....se ne hanno; ma d’ordinario è uno straccio di cappotto vecchio che serve di lenzuolo e di coperta. Molto di frequente essi amoreggiavano con le ciociare, che si trovavano sul posto per i lavori della sementa, e allora, quando erano un po' alticci, pigliavano su l’organino e andavano a far la serenata davanti la “tana” della “sgrinfia”. In altri tempi, intorno al 1870, i bifolchi erano circa un migliaio nell’Agro romano ed i soli Ferri e Mazzoleni, notissimi fra i mercanti di campagna, n’avevano alle loro dipendenze oltre 300. Oggi, invece, un tal numero di bifolchi non si rinverrebbe per tutta la nostra campagna. Il maggior contingente di questi lavoratori, era fornito dai circondari di Roma e di Viterbo: e se ne ricordano di abilissimi come Carlomoro, Gallinella, Caciotta, Cencio Cugini, Peppepensa, Cocciasecca, il Modello e tanti altri, i quali, senza traccia guida veruna, sapevano tirare il solco diritto per qualunque distanza. A quei tempi beati, i bifolchi si facevano un dovere imprescindibile di osservare e celebrare degnamente le loro feste, che cadono a Pasqua di Resurrezione, a mezz’agosto ed a S. Michele, ai 29 di settembre. In quei giorni di baldoria essi vestivano i loro pittoreschi costumi: il cappello di scoccia-cavallo, un tubo di feltro nero, alto più di un palmo, duro e con le tese strettissime, la muta tura di diagonale, vestiario in lana di qualità inferiore, e gli stivali a fibbia (non usano più), specie di gambali di vacchetta con cinque fibbie di ottone per parte. Tronfi ed impettiti sotto tutta questa roba, fatta loro pagare il triplo del valore reale, si recavano a Roma, ed, ivi, era loro convegno la Piazza Montanara, dove formavano in quei giorni un tale agglomeramento da rendere quasi impossibile la circolazione. Ed erano, allora, continui battibecchi coi vetturini, che dovevano transitare “A burino, te scanzi?” “Ma co chi l’hai”? “ oò li mortacci tua.” “E dè sto beccamorto! E piantalaaa ....” E l’automedonte si allontanava borbottando “Ve possin’ammazzà voiantri e chi nun ve manna a le darsene de Civitavecchia!”. Sul mezzogiorno, poi, si riversavano, tutti, chi da padron Sante Congrega, chi dalla sora Tota alla stradaferrata, chi da Zi’ Belardino, alla salita di S. Omobono, le tre osterie allora più in voga. Lì, dopo aver mangiato e bevuto, aveva luogo la tradizionale gara poetica, il canto a la peveta, come dicevano i ciociari: ma, eccettuato il Cocciasecca, che era buon improvvisatore, gli altri valevano ben poco. I temi favoriti erano il mare e la terra, per gli analfabeti: ma chi sapeva di lettere osava, persino, attaccare il Tasso e l’Arosto, Ariosto ...Excusez du peu!.....
E spesso, molto spesso, accadeva che, per diverse interpretazioni su questi due autori oh, poveri autori ! si veniva a la scarda. Usciti dalle osterie, si dirigevano dal tabaccaio “a pijà li sigheri” poi, in quattro o cinque per botta, si facevano rimorchiare,…in case più o meno equivoche dove davan fondo all’ultimo soldo: di lì, infine, si recavano alla locanda o in campagna addirittura.... Il giorno appresso si comunicavano scambievolmente le impressioni e si raccontavano le vicende della festa....e si trovavan tutti d’accordo nell’affermare che eran rimasti....senza il becco d’un quattrino. Così vivevano: e così, in due o tre giornate di baldoria, sciupavano quei pochi soldi, che con tanti stenti avevano guadagnati, e quelli ancora presi a caparra sui futuri sudori! E, così, se ne tornavano in campagna all’aratro e all’acqua cotta, cantando spensieratamente:
“Fermo, sor oste: nun portà più vino
Ché lo capoccia ha ristretta la mano
Mò ch’è passato lo mese agostino...!”
....E, se in quei versi difettava la metrica, di filosofia ve n’era, sempre, abbastanza. Ora non è più così. Il tipo caratteristico del bifolco spensierato e scampagnone è del tutto scomparso. Le condizioni della vita sempre più difficili hanno modificate le abitudini di questa classe divenuta più seria e previdente. Tutti amano tener da conto qualche soldo per l’incerto domani: di caparre poi da un pezzo non si parla più nemmeno.

I nomi dei buoi

Vuole il lettore un saggio di questa strana, poetica, infinita nomenclatura. Tutto quello che umanamente esiste o ha esistito è ricordato nell’immensa famiglia cornuta da un rappresentante che sostiene l’onorifico incarico o la taccia vergognosa con la stessa olimpica serenità. Eccovi il bel sesso con Rubacore, Belviso, Bellicapelli, Occhineri. Il brigantaggio, antica piaga d’una parte d’Italia, non escluso l’Agro romano, ora fortunatamente scomparsa, è ricordato da Gasperone, Spadolnio, Brigante, Malandrino, Macchiarolo, tenuto però in rispetto da tutti i graduati dell’Esercito da Caporale a Generale. Là pastura gravemente un Re di Francia insieme ad un Facchino e ad un Muratore, mentre Nerone va amorosamente strofinando il suo muso sulla groppa di Gradasso. Più distante Garibaldi cozza con Cardinale, Passeretto dorme accanto a Serpente, Cardellino si diverte a dar fastidio a Pittore .....insomma, per finirla una buona volta, non v’è natura né equilibrio che sia rispettato, le migliori riputazioni storiche, son trascinate nel fango e le più alte dignità di questo mondo se la fanno con l’ultimo spazzino! Consoliamoci però pensando che, alla fin fine, son delle bestie che portano certi nomi....e che vi sono tanti uomini che li portano....peggio delle bestie.

I capoccia.

Il mestiere del capoccia è uno dei più difficili della campagna, se fatto, ben s’intende, con intelligenza ed arte. Sono tante le cognizioni e l’esperienza che questo richiede, che non deve arrecare meraviglia l’apprendere che nell’Agro romano di capoccia buoni, pochissimi, ai giorni nostri, ne esistono, e si rendono, anzi, sempre più scarsi. Il capoccia, oltre ad una pratica consumata di tutti i lavori dell’aratro, i quali, a seconda che sono eseguiti, decidono sui buoni o cattivi risultati di una semina, deve, ancora sapere quel tanto di veterinaria - e non è poca! - che può occorrere le mille volte in campagna: dove, a cagione delle distanze, si è costretti, in casi urgenti, a provvedere da per sé sopra un capo di bestiame infermo, senza attendere l’arrivo del sanitario speciale. E pensare che vi sono tanti e tanti cosiddetti capoccia, che non sanno dirigere un lavoro, non sanno prendere un bue e di veterinaria sanno proprio quel tanto che basta per rovinare irremissibilmente un animale. Tanti capi d’azienda levano l’assognola, cioè tagliano alle povere bestie l’unghiella, che è la membrana detersoria ingrossata, ovvero il corpo ammiccante destinato dalla natura a tener l’occhio umido e ripulito. Cauterizzano il “mal del verme” come se il male, invece che nei vasi linfatici, che comunicano fra loro in tutte le parti dell’animale dimorasse nell’epidermide o nei peli: e così di tanti altri pregiudizi. Una volta capoccia si diveniva per propri meriti ed in seguito ad una constatata esperienza: capoccia veramente lo furono Angelone, Cugini, Raffaellaccio, i Pizzi, Cherubini, Sestili, Pastorelli ed altri. Oggi, di questo stampo non ve n’ha più o, se ve ne sono, poco altro hanno da vivere, trattandosi di vecchi campagnoli, che con la loro morte lasceranno libera la piazza ed in balia alla bestialità dei loro successori. Fin verso il 1880 i capoccia dovevano anticipare come caparra dalle 50 alle 150 lire per ogni bifolco, qualunque fosse stato il numero dei componenti l’azienda: per quelli, poi, che morivano o.... “bruciavano” disertavano, cioè, lasciando debiti al capoccia pensavano i padroni ad indennizzarli adeguatamente. Fra i bifolchi vi son stati dei “bruciatori” famosi che hanno bollati quasi tutti i capoccia; ma questi, in appresso, tolsero, molto prudentemente, la consuetudine di passare la spesa agli uomini; li pagarono invece, in danaro, fornendoli, poi, dei generi che tenevano in vendita essi stessi. E il guadagno più che discreto, che offriva questo commercio, procurò loro un sufficiente compenso alle perdite eventuali. Ho detto che il guadagno, che ritraevano da questi esercizi di vendita, era più che discreto; ed è vero. E’ così che molti capoccia, specialmente se furbi, si erano fatte delle posizioncelle: e ve ne sono stati dei ladri, addirittura. Oggi, d’altra parte, i nostri mercanti di campagna preferiscono di affittare le dispense delle loro tenute ad estranei senza coscienza né pudore, i quali sfruttano le necessità delle varie aziende con un sistema di ruberie e di ricatti dei più vergognosi: da veri grassatori. Non è, ora, tanto più deplorevole questo procedere ? E non dobbiamo augurarci che l’esercizio di queste dispense torni, come una volta, ai campagnoli delle tenute stesse i quali, anche se non sempre onesti, trovano tuttavia un freno all’illecito lucro nelle relazioni di vita che hanno coi loro acquirenti e compagni di lavoro ad un medesimo tempo ?

I guitti

Per molto tempo i guitti sono stati, e in parte lo sono anche adesso, i veri paria della campagna, i più umili, i più sfruttati e i più miserabili fra i lavoratori della terra. Provengono quasi tutti dalle province di Caserta o dagli Abruzzi, sono arruolati per compagnie dai cosiddetti caporali che s’incaricano di trovar loro lavoro, scendono da noi sul principio d’ottobre per attendere alla coltivazione dei vari cereali e, terminati i lavori della mietitura, se ne tornano in patria. Le loro condizioni, fino a pochi anni indietro, erano tristi oltre ogni dire: sfruttati indegnamente dai tali che speculavano sui loro sudori e li opprimevano di pesi e di usure, dovevano lavorare sui seminati dall’alba al tramonto, spezzandosi la schiena curvi, sullo zappone. Se poi si pensa che per questa povera vita stentata percepivano una mercede giornaliera irrisoria, addirittura, che andava dai diciassette ai ventun soldi, allora vien fatto di domandarci se il panem nostrum quotidianum non fosse per essi una vera utopia. I mercanti di campagna davano loro per ricovero indecenti ed anguste stamberghe, quando non li tenevano in grotte fetide e stillanti umidità, a guisa di giumenti. Qui, i guitti, dormivano alla rinfusa senza distinzione di sesso né di età, stipati gli uni sugli altri, su poca paglia trita e spesso, molto spesso, nell’ingrata compagnia di polli e di altri animali da cortile e, magari, da stalla. Insomma quelle poche e sospirate ore di tregua e di riposo erano scontate, dirò quasi, in canili indecenti, dove l’aria non circolava, il fumo accecava ed il puzzo ammorbava. E questa non è esagerazione: no, è del verismo bell’e buono. Inutile aggiungere che, data una tale condizione di uomini e di cose, l’igiene e la moralità diventavano dei requisiti del tutto estranei a questi ambienti !...... Quella dei guitti era la vita delle bestie; oggi qua, domani là, secondo li voleva l’interesse del caporale; non si preoccupavano dell’avvenire: la pizza di granturco era l’unico loro bisogno e bastava il “fate sacco” del fattoretto, il comando del riposo per la colazione e la merenda sul lavoro, perché i zappetti andassero all’aria fra le grida e la gioia e la campagna risuonasse di motti allegri. Proprio vero che l’avvilimento continuato di certe classi viene gradatamente atrofizzando per virtù di atavismo, quanto di più caratteristico esiste nell’umana natura: la coscienza! Ma chi sa se questo Difetto non fosse provvidenziale per il povero paria? Tale era la condizione dei guitti in tempi tutt’altro che remoti, fino ad una diecina di anni fa. Ora anche i guitti, come tutte le altre classi di lavoratori hanno ottenuto qualche miglioramento, le paghe sono aumentate di un buon terzo ed anche il lavoro non è più tanto opprimente: essi non escono più di casa, come una volta, un’ora prima di giorno, ma al levar del sole e quando questo si tuffa, come direbbe un poeta, in seno Teti, sono già rientrati. Anche le abitazioni sono state migliorate ed è difficile vedere i covili d’un tempo. E come hanno progredito gli uomini, così pure le donne, le quali non portano più il capo ammantato come tante monache, ma sfoggiano fazzoletti dai colori vivaci: di rado se ne vedono ancora calzate di ciocie: qualcuna persino si profuma colla Chimia Migone (storico). Non poche sono quelle che possiedono una macchina da cucire e sanno servirsene, mentre prima erano appena capaci di attaccare un bottone. Il miglioramento economico, insomma, è stato, anche per i guitti, causa di un miglioramento di abitudini di vita e di un certo elevamento morale: ora è difficile che si lascino sfruttare come una volta dai caporali: hanno compreso che l’unione fa la forza ed all’occasione sanno mostrare i denti. Molto pittoresco e caratteristico è lo spettacolo che, anche oggi, offrono le compagnie dei guitti quando si trasferiscono da una località all’altra, anche nella stessa tenuta. Sono uomini e donne, carichi delle povere masserizie....e dei loro marmocchi, che si snodano in una lunga fila attraverso i campi, formando una processione bizzarra ed interessante. I figli lattanti sono portati in capo dalle donne, entro una specie di canestro o cuccetta; i più grandicelli, invece, se li recano in seno o, più spesso, li lasciano sgambettare, limitandosi ad incitarli di tanto in tanto, come si attardano nella via, con un benevolo ammonimento: “Cammina, ih! pozzi esse accise!” Non di rado, poi, è il padre che porta un bimbo a cavalcioni sul dorso, ed un altro in braccio...e così vanno, chi più innanzi e chi più dietro, questi canterellando, quelli bestemmiando, tra i frizzi volgari e le risate argentine delle coppie d’innamorati. Le donne, specialmente le maritate, indossano delle giubbe maschili, spesso delle tuniche militari coi loro bravi galloni dei vari gradi, che acquistano dai rigattieri di Roma. Un tempo qualche fattore sposava una di queste ciociare, essendovene di splendida bellezza, che la loro naturale ingenuità rende ancor più attraente e desiderabile. Adesso, però, anche i fattori cercano il partito, e sì son fatti più positivi: cosicché questi connubi sono pressoché finiti. Ad ogni molo, fra i guitti, è la nota allegra che sempre predomina: e là si fa all’amore, si suona e, sopratutto, si canta. Riporto alcuni dei ritornelli, che corrono più sovente per le loro bocche con una variazione di ritmi e con una modulazione tutte speciali.
“Jettà ‘na fava ‘mmezze a du picciuno,
Une magnava e l’autre teneva mento
(Gettai una fava in mezzo a due piccioni:
L’uno mangiava e l’altro guardava).
Garofele chiantate dint’a’npozze,
Te voglie beno com’a vere Dio
Me l’haio ferite el coro ‘nghe ‘na ghemera
(Garofano piantato dentr’a un pozzo,
Ti voglio bene com’è vero Dio;
e l’hai ferito il core con un vomere).
So’ venute a canta sotto a sta ceuza,
Ce sò venute co’ na gamma scauza;
E de canzono n’ho ditta ‘na ‘nfeuza,
Ma te l’ho ditte co la boce fauza
(son venuto a cantare sotto a questo gelso
ci son venuto con un piede scalzo
e di canzoni ne ho dette una sfilza
ma te le ho dette con una voce falsa)
Ohi, mamma, mamma quante sauciccie
Sta zitta, figlia, ca nun sò le nostre:
Ciaveme nu padrone tante triste
‘Nce l’ha voluta daie la parte nostre.
(oh mamma, quante salsicce
stai zitta figlia che non son le nostre
Ci abbiamo un padrone così cattivo
Che non ci ha voluto dare la nostra parte).

L’AZIENDA DEL PROCOJO[13]

Quest’azienda già lo dicemmo provvede al governo ed all’allevamento del bestiame grosso della tenuta, dei buoi, dei cavalli e delle vacche. Tutto ciò è di speciale spettanza del massaro, il quale vi accudisce coadiuvato dai vaccari che si occupano, sopra ogni altra cosa, di mungere le vacche: dai cavallari, che provvedono alla doma dei puledri e nelle aziende di conto, vestono la livrea, unitamente al portaspese il quale ha l’incarico di portare a Roma i vitelli da latte. Vi è poi il coratino che ha la diretta sorveglianza dei vaccari e misura il latte delle munte; l’appressataro, a cui è destinata, la custodia delle mongarole; il barrozzaro, infine che s’occupa dei trasporti necessari al procojo e provvede la legna. Per il bestiame bufalino che presso noi è allevato soltanto a Maccarese e nelle Paludi Pontine, esiste un’azienda speciale, quella della bufolareccia con apposito personale specializzato in questa industria come abbiamo accennato nella parte generale, parlando delle varie mansioni del personale agricolo della Campagna romana.

I massari

Il massaro accudisce all’allevamento equino e bovino, distribuisce i pascoli, scarta le bestie vecchie ed infette, dirige, insomma, tutta l’azienda del procojo. Per questo mestiere necessita una grande conoscenza della veterinaria pratica, poiché, in un procojo di una certa importanza, vi è sempre da curare qualche capo di bestiame; e questo è ufficio esclusivo del massaro. Quello di massaro è uno dei posti meglio retribuiti presso di noi, non tanto per il salario, quanto per le numerose propine, che arreca con sé. Spesso, poi, i nostri massari tengono, nelle varie tenute, la rivendita del vino e di altri generi e ne ritraggono un lucro discreto. I massari di Senni, Mazzoleni, Calabresi, Guglielmi, Torlonia, e d’altri grandi mercanti, godevano, davvero, d’una agiata posizione: conoscevano, però a fondo il loro mestiere, e sapevano adoperare un ferro con perizia e somministrare un farmaco con opportunità. Anche qui, oggi, i nostri mercanti hanno voluto economizzare sugli stipendi, e con una cinquantina di lire mensili, si tengono in tenuta dei guastamestieri, che di massaro non hanno che il nome, e che seviziano il povero bestiame in tutti i modi possibili. Abbiamo, tuttavia, anche oggi dei buonissimi massari, ma pure questi hanno un difetto: quello di essere pochi, pochini davvero, per il vasto Agro romano! Sembra che parecchi massari rimasti celebri abbiano sopportato con troppa filosofia....delle disgrazie coniugali tanto è bastato alla maldicenza, che regna sovrana nelle campagne, per regalare ad alcuni di essi una nomea poco gradita e quasi certamente ancor meno meritata. Rammento, a questo proposito, che uno..... di quelli dovette sorbirsi il seguente epigramma:
Faccia di zoccolante
stupido ed ignorante
Perché bella la pentola non curi
Se ti nascono in casa i figli impuri

I Vaccari

Il mestiere del vaccaro è, forse, il più faticoso: poiché, mentre per tutti gli altri lavoratori della campagna la notte è apportatrice di riposo, per i Vaccari, invece non rappresenta che la parte peggiore del loro quotidiano lavoro. Una volta i vaccari avevano anche, fra le altre attribuzioni, quella della manipolazione del burro: questo era uno dei nostri migliori prodotti e godeva una giusta rinomanza, dovuta alla sua schietta genuinità. Nella maggior parte dei casali delle tenute della campagna romana esistono, tuttora, le grotte adibite, un tempo, alla lavorazione del burro, e vi si trovano spesso i posti ove erano le ramine, la botte e i diversi utensili necessari a detta bisogna: a Marco Simone la grotta, che serviva per la fabbricazione del burro, è curiosamente dipinta... ed è, pure, bucata qua e là, per i tasti praticati da gente credula, la quale immaginava che ivi esistesse un tesoro. Riferisco un aneddoto narratomi da un contadino a proposito di questa grotta. “Nel novembre del 1873, ero ragazzo, ci portarono anche a me. Eravamo in cinque e tutti armati come chiavari per paura del diavolo che s’era, come dicevano, impadronito dei denari.
Ci mettemmo a scavare proprio sotto il lucernario della grotta. Picchia o martella fu fatta una gran buca circolare e profonda ma sempre colla paura di vedere comparire il diavolo da un momento all’altro. Ad un certo punto, grondanti sudore e trepidanti, udimmo che il paletto faceva un suono più cupo e rimbombante del solito. “Eccoli!” “Zitti che s’esce il diavolo!” “Non lo nominate” “Forza” “Zitti!” e dopo un altro po' di quel rimbombo sinistro viene fuori, invece dei denari, un bel zampillo d’acqua limpida che ci obbligò a lasciare in pace, corbellati, il tesoro ed il signor diavolo”. Oggi il burro non si fa più dai nostri vaccari: perché spendendo qualche cosa di meno, abbiamo qualche cosa di più; prima nel nostro burro non vi era che il solo latte, ora, invece, v’è anche, e sopratutto, la margarina,...se pure non v’è di peggio! Ma si risparmia qualche soldo sulla nostra alimentazione e questa economia va1 bene la nostra pelle, non è vero!!.. Sembrerebbe che i vaccari del giorno, non avendo più questa incombenza speciale, dovessero trovare più facile e grato il loro compito: ma, di fatto, non è così. Prima la munta aveva luogo quasi sempre di giorno, e di notte il vaccaro poteva riposare; adesso si munge di giorno e di notte, e deve osservarsi che la durata d’ogni munta è all’incirca, di tre ore. Il latte è tutto venduto ai negozianti di Roma: speciali contratti obbligano il venditore a scaricare ad un’ora convenuta, e su questo punto non si transige. Anche le munte, quindi, debbono aver luogo ad orario fisso; e, giunto il momento, o di giorno o di notte, al chiaro di luna o al bagliore dei lampi, grandini o diluvi, il povero vaccaro è costretto a mungere. Immaginate voi dunque, quale penosa fatica debba essere la munta notturna, fatta sotto l’imperversare d’una bufera, quando lo scroscio della pioggia, il rombo del tuono e l’urlo del Vento arrecano pur disturbo a chi riposa comodamente sotto le tepide coltri !....Ed il vaccaro è lì, nell’aperta campagna, in mezzo agli animali, con il fango e l’acqua fino alle ginocchia, trascinandosi dietro, con una mano, una lunga corda, con l’altra sorreggendo la pesante secchia del latte, ed eseguendo quel lavoro nell’oscurità più completa, la quale, forse, rappresenta il più fastidioso di tutti quei guai. E’ perciò che i vaccari come gli antichi popoli pagani adorano la dea triforme, che è loro d’efficacissimo aiuto nelle notti in cui maggiormente splende.Una volta percepivano uno stipendio irrisorio: ma in seguito a degli scioperi ben organizzati, hanno ottenuto un aumento, sin da un vent’anni addietro: ed oggi questa loro vita, ch’è fra le più strapazzate, è compensata con un salario mensile d’una settantacinquina di lire, e meno ancora, qualche volta. Sono pochi quelli che invecchiano e ciò è forse bene: poiché i fastidi che accompagnano la tarda età non permetterebbero loro di continuare in un mestiere che richiede salute ferrea, resistenza, agilità e buonissima vista; e si ridurrebbero alla miseria vera. Con l’estendersi delle bonifiche si è diffusa nell’agro romano l’industria delle vacche “mucche” o “da stalla”, industria favorita dal governo, o me abbiamo già accennato con esenzione di tasse ed altri premi. Si sono perciò edificate stalle comode ed igieniche, la cui tenuta è sottoposta alla sorveglianza dell’ufficio d’igiene, ed il latte che prima si mungeva all’aperto e con sistemi quanto primitivi, altrettanto rivoltanti, ora si munge al coperto e si ottiene prodotto pulito. Alla custodia delle vacche da stalla sono addetti i gnuccari: i vaccari, il cui numero si è naturalmente assottigliato prestano ancora la loro o pera nei procoi delle tenute non bonificate, ove ancora si mantengono gli antichi costumi. Petulanti e maligni, come sono taluni, fanno grande sfoggio di soprannomi sugli altri e fra loro stessi: chiamano ad esempio, fòrcore (folaghe) i bifolchi, i quali, del resto, li ricambiano cordialmente col nomignolo di “mazzi parronti”. I nostri cavalcanti cavalcano egregiamente: nelle dome dei puledri hanno uno dei migliori esercizi per sviluppare queste loro qualità. Molti anni or sono, in una gara d’esercitazione con la compagnia del famoso Buffalo Bill, ebbero campo di mostrare lo loro grande valentia e suscitarono una entusiastica ammirazione. Addirittura proverbiali poi rimarranno nell’Agro romano i nomi di Coccone, Tirapelle, Trentavizi, Tempestino; oltre a questi soprannomi vi erano quelli di Patata, Temperino, Trepalle, Buffente, Musichinio, Butirone ed altri; che nell’equitazione riuscirono insuperabili. Egregi suonatori di strumenti a corda furono Arenga, Giacinto, il Caciarino, Pio e Lorenzo Di Mattia. Né difettavano fra essi i cultori delle muse. Ricorderò il solo Antonio Pasquali, autore del poemetto “la Costanza” dedicato a Pio IX. Il pontefice volle mostrare il suo gradimento al poeta coll’offrirgli un posto di spazzino nei sacri palazzi Apostolici. Il Pasquali rifiutò sdegnosamente....e credo che non avesse poi tutti i torti di preferire le sue vacche all’immondizie del Vaticano!!. Celebre improvvisatore fu pure Pasquale Ducci. Paniello pubblicò un licenzioso poemetto, pieno d’italianità: ma sembra che di sudicerie ve ne fossero troppe, benché scritte in lingua italiana, poiché appena venuto alla luce, nel 1871, il libro fu sequestrato.

Le merche (marchiature)

Crediamo che la descrizione delle cosiddette merche del bestiame dei procoi possa riuscire di qualche interesse per il lettore. Questa operazione, che ha luogo nel maggio, si eseguisce sugli allievi, vaccini ed equini e, sia per la bella stagione in cui vien praticata, sia, pure, per l’interesse che da per sé stessa offre, porge occasione a festosi convegni e ad allegre scampagnate, offerte specialmente nel passato dai mercanti di campagna ai propri conoscenti. E’ presto detto in che cosa consistono queste merche: gli allievi vaccini di un anno, d’ambo i sessi, sono introdotti in uno spazioso rimessino e da questo, poi, passano a tre e a quattro per volta, in un altro chiuso, più angusto, di forma circolare, dove, esternamente all’intorno, vengono a disporsi sotto delle frasche, che li riparano dai raggi solari, i padroni e gli invitati. Entrati che sono i vitelli in questo secondo recinto, dapprima si lasciano correre alquanto a sbizzarrirsi per istancarli; quindi i lottatori si slanciano loro addosso, l’uno alla testa, l’altro alla coda e, con mosse brusche ed energiche eseguite opportunamente, li stramazzano terra: e allora, corre un terzo, con la pastorella, ad impastoiare gli animali. Frattanto il massaro o, alle volte, il mercante stesso, si è appressato e, come la bestia è ridotta all’impotenza, con un punzone rovente gli imprime le cifre padronali alla coscia destra o alla spalla sinistra, e il numero dell’anno in corso sull’anca destra. Diversamente si procede per la merca dei vannini od allievi equini. Vien loro gettato il laccio al collo quindi il cavallaro, fra i più destri, gli salta alla criniera dal lato sinistro, e, poggiandovisi su col petto, afferra con la mano sinistra la membrana pituitaria dell’animale e, così, giunge ad atterrarlo. Ai cavalli non è impressa la cifra dell’anno; oggi, anzi, i più ai limitano a praticare loro un semplice merchetto sulla guancia sinistra. Spesso le bestie, imbizzarrite o spaventate, vanno a dar di cozzo sugli uomini occupati a reggere ed impastoiare uno dei vitelli: e, allora, vanno tutti in fascio a terra formando dei gruppi comicissimi, che provocano le più matte risate degli spettatori. Talvolta, però, qualche disgrazia sopraggiunge a turbare la festa: poiché, ma è raro il caso, qualche vaccaro o cavalcante, per una staffettata ricevuta nelle parti più sensibili del corpo, resta esanime sul terreno. Tolti, del resto questi inconvenienti, le merche riescono allegre per gli applausi prodigati ai più arditi e coraggiosi lottatori e per i motteggi e i frizzi che non sono, davvero, risparmiati ai malpratici e ai timorosi. Gli antichi mercanti eseguivano le loro merche fastosamente addirittura: e queste, nei procoi più importanti, duravano sino ai tre o quattro giorni, nei quali gli invitati ricevevano trattamento signorile. Allora, terminata la merca, uno dei vaccari, cavalcando il più bel vitello, faceva un giro attorno al rimessino, sporgendo il cappello, che gli spettatori riempivano di scudi. Nella merca fatta da Santovetti a Porcareccina, nel 1887, si raccolsero col giro del cappello ben settecentocinquanta lire. In un’altra merca fatta da Mazzoleni, alla Capocotta, un vaccaro, che porta il nome dell’autore della Storia del Reame di Napoli, uscì fuori a gridare: “evviva er padrone, e possa campare cento anni, e io....cento e uno”   “E perché tu cento e uno?” gli domandò il povero Sor Achille. “Eh, per aricordame la morte tua, sor patrò”... e una omerica, generale risata accolse la scappata del vaccaro. E adesso? E’ sempre il solito discorso: anche le merche oggi si fanno sì, ma senza invitati, senza baldorie e banchetti e, soprattutto, senza giri di cappelli. ….. si..:.si ricorda che nel 1893, ad esempio, nella aerea di Pallavicina d’invitati ve n’erano parecchi e fu così che il giro del cappello, fra tutti quei signori, fruttò la bella somma di.....venticinque soldi !.... E’ pur vero, però, che il banchetto fu pari, alla regalia e quando si debba riuscire a certa taccagneria, verrebbe meglio che i nostri mercanti ponessero queste feste nel dimenticatoio, nel voluminoso bagaglio delle tradizioni: altrimenti son essi, purtroppo che ne escono mercati (marchiati)... e peggio assai delle loro bestie!


L’AZIENDA DELLA MASSERIA


La masseria provvede esclusivamente all’allevamento ovino e alla produzione dei formaggi di latte di pecora, industria speciale della campagna romana. quest’azienda è diretta dal vergaro ed il suo personale si compone dei pecorari, che attendono ai pascoli e custodiscono gli armenti del caciere o caciaro, che s’occupa della manipolazione dei formaggi, del buttero, che è incaricato di trasportare a Roma gli abbacchi, la ricotta, il formaggio e le pelli, ciò che costituisce il così detto frutto, dei bagaglioni, infine, i quali vanno con le bestie da soma per legna, e per tutti i vari servizi della masseria. Nell’Agro romano, dove l’allevamento ovino ha un eccezionale sviluppo, specialmente oggi che ci sono tanti moscetti, quest’azienda assume una grandissima importanza.

I pecorari

Eccoci a parlare degli esseri più pacifici delle nostre campagne dove menano una vita assolutamente primitiva per costumi ed abitudini. E la vita che essi conducono, scevra di passioni violente e lontana dalle suggestioni del mondo civile, costituisce, appunto, la più solida garanzia per la loro salute, che si mantiene vegeta ed inalterata sino alla più tarda età. Il maggior contingente di questa classe di campagnoli è fornito dagli Abruzzi, dai circondari d’Aquila e di Camerino; essi scendono fra noi nell’ottobre, e nel giugno tornano alle loro montagne. La loro vita, che si svolge in un’eccezionale solitudine e monotonia, non è davvero degna d’invidia. Addetti alla custodia degli armenti, sono esposti a tutto il rigore delle intemperie e, quando li sorprende la bufera, debbono limitarsi a gettarsi sulle spalle quella specie di coperta di lana ovina, che forma il loro cappotto, attendendo con tranquilla filosofia che torni il buon tempo. Nelle belle giornate, poi, sempre invigilando sul gregge si occupano di mille faccenduole: chi legge, chi fa la calza o rattoppa e lava i panni, chi canta o suona la zampogna e chi tende i lacci alla selvaggina. I pecorari sono economi e laboriosi oltre ogni dire: si fabbricano da per sé tutti gli utensili e gli oggetti necessari all’azienda ed a loro stessi; ed anche lavorando una panchetta di legno, fanno a gara a chi sappia meglio incidervi sopra con la punta del coltello, un motto, un emblema od una cifra. Alla sera, rinchiuse le pecore nell’ovile, le mungono due volte per bene estrarne il latte: e mentre mungono, seduti sotto un riparo di paglia, cantano le litanie dalla Vergine. Pongono, quindi, le secchie colme intorno ad una caldaia, dove man mano vengono versando il latte, colandolo: e, dopo le altre manipolazioni d’uso, ne estraggono quel piccante e gustoso formaggio detto pecorino; prodotto tanto vantato della nostra campagna. Pongono, poi, nuovamente la caldaia al fuoco per estrarne la ricotta: e qui, pure accompagnano il lavoro recitando il Rosario, poiché i pecorari sono i più religiosi fra i campagnoli. La ricotta, insieme a poco pane, rappresenta il loro esclusivo alimento, e percepiscono un salario che prima variava dalle dieci alle quindici lire mensili ed ora è stato raddoppiato. In fine di stagione si dividono quelle poche pelli delle pecore, che vengono a morire naturalmente. Dormono in capannelli portatili di paglia, bassi ed angusti, dove con costretti di entrare carponi e, mentre tutti gli altri campagnoli hanno il pagliericcio, essi dormono su certi tessuti d’erbe d’alto stelo, per lo più di finocchio selvatico, detti paldricce. In maggio, all’epoca della carosa o tosatura delle pecore, la masseria è in baldoria, perché ai pecorari vien passato un vitto migliore dell’eterna ricotta... e ci scappa anche, il bicchiere di vinello: di questa operazione, del resto, non è qui il caso di parlare poiché, se si eccettuano i motti salaci dei carosini e un movimento insolito dell’azienda, tutto si riduce, all’infine, ad impastoiare e pastoiare le pecore. I carosini (tosatori) sono tutti nativi dei paesi che circondano Rieti. Hanno dai 25 ai 30 soldi al giorno ed un vitto piuttosto abbondante, con un po’ di vino. I pecorari, specialmente nella loro giovinezza, sono alquanto boriosi, tanto che la gente di campagna li regala dell’epiteto di palloni: hanno le loro donne al paese, e spesso i giovanotti inviano alle loro fidanzate la lettera col fiore, col cuore o con la spada, a seconda dell’idea che vogliono esprimere. Con le spose, poi, è molto se possono conviverci trenta giorni dell’anno, ché il loro mestiere vagabondo non può concederne di più.
“Piangne lu pecoraru quanno mogne
Nun piagne quanno dorme cò la moje,,
dice il solito bardo dei campi: e dice pure:
“Lu pecuraro quanno va a Maremma
Se crede d’esse giudice e notaru
La coda de la pecora è la penna,
Lu secchiu de lu latte è u’calamaru.
Bocca de fre...sca lu pecoraru.”

I vergari

Una volta fu domandato ad un pulcinella, in teatro, quale mestiere avrebbe preferito; e la faceta maschera rispose subito: quello del vergaro ! Davvero i vergari menano in campagna la vita migliore: tanto che, in genere, lo stesso loro fisico, esuberante di salute, svela da per sé l’interna beatitudine. La masseria è il loro regno: e di là non si muovono che per recarsi a fare la quotidiana ispezione dei pascoli della tenuta; e dà piacere, allora, il vederli in giro per la campagna, cavalcando delle mule robuste, grassi, rosei, paffuti e sorridenti, distribuendo strette di mano e buone parole a quanti s’imbattono sulla loro strada. Durante i tre mesi che passano alla montagna sono essi gli arbitri dell’intera masseria, che, di solito, si compone dalle tre alle seimila pecore. Anche in maremma, poi, mai può il mercante esercitare sopra di loro un rigido controllo. Godono quindi di una discreta libertà d’azione e sono come suol dirsi l’occhio destro del padrone nel cui animo sanno spesso insinuarsi con ogni sorta di arti e di artifizi. Del resto anche il padrone che sa di aver loro affidato uno dei principali cespiti dei guadagni procura di tenerseli cari e spesso lascia correre. Cosicché e mai particella consequenziale fu più a proposito adoperata, i vergari hanno tutti qualche cosa al sole... o, magari, più prudentemente ..all’ombra, e parecchi son divenuti padroni alla loro volta. Conducono vita agiata, saluberrima e più remunerativa degli altri capi d’azienda; tale infine da legittimare nella più ampia misura l’aspirazione della faceta maschera napoletana.



CAPITOLO SECONDO


Altri personaggi, piccole industrie, luoghi e costumi


Aquilani e staccionatari

Come lo denota il nome, gli aquilani sono tutti della provincia d’Aquila ed essi, esclusivamente si occupano dei vari lavori di drenaggio, di sterro, di tracciamento e spurgo dei fossi: nei terreni seminati praticano, pure, quelle piccole forme, chiamate ronzette le quali riescono utilissime per lo sfogo delle acque, specialmente in luoghi bassi e paludosi. Come i guitti, questi lavoratori hanno i loro caporali, che l’ingaggiano e provvedono al loro lavoro; non conducono, però seco le donne e ricevono un trattamento discreto: durante il giorno mangiano pane e, solamente di sera, la polenta e sono retribuiti con una mercede giornaliera che varia dalle L. 1,65 alle L. 2,25. Sono uomini forti, sani e robusti e faticatori quantunque quel proverbio delle nostre campagne dica che l’aquilano alza forte e mena piano. Può osservarsi che il loro lavoro è estremamente gravoso: quasi sempre sono costretti a passare le giornate nei fossi e nelle forme, nude le gambe ed immerse nell’acqua e nel fango; e, d’altra parte, la stessa terra dei luoghi acquitrinosi, dove, di solito, si trovano gli aquilani per le bonifiche, presenta una tale tenacità ed un tal peso, che la sua escavazione ed estrazione non può protrarsi che con somma fatica e lentezza. Anche fra gli aquilani vi sono dei caporali discretamente facoltosi, come i Ceci, i Santilli, il Fedrici, i Navarri, il Di Giacomo.. ed altri parecchi, che crediamo qui superfluo il ricordare. Gli staccionatari sono tutti di Sarnaro o di Piobbico e di Sempereto, frazioni di quel comune. Essi sono, di fatto, una specie di “facocchi” (carpentieri) rusticani poiché oltre le staccionate, fabbricano i nostri aratri antidiluviani, quello col ceppo e la stiva e quello col dentale, le barrozze, i carretti e tutto quanto, insomma, può essere fornito dall’opera loro in un’azienda rurale. Anche costoro, come gli aquilani, mangiano pane e polenta, ma ricevono uno stipendio maggiore, poiché dalle L. 45, percepite dal più inetto principiante, possono giungere anche alle L. 100 secondo la capacità individuale. Sono, anch’essi, condotti da caporali, che assumono i lavoro a cottimo e a tariffa: qualche mercante, però preferisce tenerli a mesata. Anche questi manovali, giunta l’estate, se ne partono per i loro paesi: e, del resto, tutti i lavoratori dell’Agro romano, chi prima e chi dopo tornano, in questa stagione, a rinfrancarsi alla saluberrima aria delle loro montagne, tutti.... meno i poveri bifolchi ed i vaccari che la natura del proprio mestiere trattiene incatenati all’azienda per tutto l’anno, anche quando la sferza del solleone trasforma la nostra campagna in un purgatorio di febbricitanti  Tutti i migliori mercanti hanno il loro caporale dei facocchi: uno dei più popolari è stato Zi’ Biagio, che serviva il compianto Achille Mazzoleni. Era questi un tipo alto e segaligno, un po’ curvo nella persona, Il quale fino all’età più avanzata, godé sempre fama di camminatore instancabile. Mazzoleni teneva, allora, in affitto più tenute, Zì Biagio, per recarsi dall’una alle altre, si serviva sempre delle sue stajole. Partiva ad esempio da Scorano, distante 19 miglia fuori porta del Popolo, per recarsi a Conca, tenuta, che si trova a 35 miglia oltre la porta di S. Sebastiano. “Dove vai Zi’ Biagio?” — gli domandava qualcuno “Arrivo qui… a Conca” (!!).

I pellicciari


Ecco una graziosa macchietta: il telefono ambulante della nostra campagna!...Già né più né meno: il pellicciaro è un telefono senza fili, un telefono Marconi. Il suo mestiere e La sua indole vagabonda lo tengono in moto continuamente; e così, passando da una tenuta all’altra si sofferma ad ogni casale .E ad ogni capanna e qua attinge ed immagazzina una chiacchiera, una notizia o riceve un’ambasciata... e là scarica questa strana merce, la quale benché non sembri valutabile, riceve sempre il suo prezzo in un bicchiere di vinello e, magari, in una scodella di minestra, che il positivo pellicciaro mai rifiuta dal curioso campagnolo. Tutto sa lui: e lui solo potrà dirvi se il tal bifolco lavora più col tale mercante, e se è vero che la fattoressa di A... .ha fatto lo scandalo col guardiano, e se è più bella la semenza di Tizio che quella di Caio o di Sempronio. I pellicciari sono della provincia di Aquila, e di lassù, sopra un asino, un mulo od un cavallo, calano alle nostre campagne. Ve ne ha di. due specie: i più si danno all’industria delle pelli di bestie bovine ed ovine, che muoiono nelle tenute, nonché delle pelli di selvaggina uccisa, come volpi, tassi, martore e lontre. Comperano, anche, miele, crine e....tutto che loro capiti, purché presenti un lucro sicuro: e girano finché non han compiuto il carico da portare a Roma.
Conducono una vita parca e frugalissima; e quasi nulla spendono per il nutrimento, trovando spesso, la sera, cena e ricovero in qualche capanna di pecorari, loro compaesani, ed il giorno, rimediando sempre un boccone, come già dicemmo, per i casali delle tenute; è superfluo, poi, aggiungere che questo programma di refezione gratuita è perfettamente diviso dal loro giumento. I cosiddetti pellicciari-spazzini si portano appresso addirittura un emporio di bazzecole e mercerie: spille, bottoni, forbici, nastri, filo, specchi, carta e penne, coltelli, inchiostro...e mille altri oggetti; poi nocciole, aranci, frutta secche, limoni..... chi più ne ha, più ne metta. Se volete pantaloni, panciotti, maglie, corpetti, camicie.... tutto è lì pronto, bell’e confezionato altrimenti potrete scegliere in pezza. Nelle domeniche i pellicciari-spazzini fanno l’esposizione della loro mercanzia ed il luogo prescelto è quello spiazzo che generalmente si trova innanzi alle chiesuole di campagna. Ivi si danno convegno, in attesa della messa, i campagnoli, in massima parte pecorari e gli spazzini fanno con loro i migliori affari, vendendo alle donne specchietti, oggetti di ornamento o di uso domestico e agli uomini pipe, coltelli e.... libri. Sicuro anche i libri, ma non crediate che si tratti dei “doveri degli uomini”, o di altre opere di carattere educativo o morale. I libri più richiesti sono gli amori di Parise e Vienna i Reali di Francia, il Guerrin Meschino o le storie brigantesche di Gasperone e di Mastrilli. Sono, è vero, libercoli di nessun valore letterario, più dannosi che utili, ma quanti fra gli autori più in voga non desidererebbero che le loro opere avessero tanti lettori e tante edizioni quante non hanno avute quelle storie....o storielle su menzionate? Purtroppo la fortuna dei libri non dipende soltanto dal merito dello scrittore Tornando agli spazzini, essi non frequentano le nostre campagne che nei mesi di autunno e di inverno; di maggio o giugno, fatto il loro gruzzolo, se ne tornano ai monti a godersi un po' di riposo, e taluni, i fortunati, ad acquistarsi un pezzetto di terra. Un celebre spazzino era certo Ortensiaccio e, fra i pellari, i Termini sono, adesso i migliori. Prima in questa classe si noveravano parecchi poeti, anche discreti, ma, ai giorni nostri, se i pellicciari son rimasti, la poesia è morta da un pezzo!

I calzolai

In campagna non si trovano sarti: questi vivono unicamente nelle città piccole o grandi: vi si trovano però dei calzolai che vi dimorano tutto l’anno, esclusi i mesi d’estate. Oltre questi calzolai fissi che dimorano nei casali e nelle osterie vi sono,quelli ambulanti. Sono per lo più di Donidoli e Rocca di Mezzo presso Aquila; girano di casale in casale con un pezzo di suola, una scatola e una se dia che portano in spalla.


I coloni

Nell’Agro romano, dove la terra è coltivata soltanto in parte e col sistema della coltura estensiva, il contratto di colonia, secondo il quale il prodotto vien ripartito tra il padrone ed il coltivatore, non può aver larga applicazione. ed infatti da noi il colono, privo delle risorse che ha nelle località ove, per effetto dell’avvicendamento delle colture, la terra non resta mai inoperosa, è ridotto a contar soltanto sulla sua parte di grano o di granturco e quindi deve menare un’esistenza ben grama. Eppure non mancano persone le quali, o perché spogliate del campicello che possedevano nel territorio del paese nativo, o, per altre ragioni, spinte dalla miseria, scendono dai monti di Tivoli, di Subiaco e di Valmontone nell’Agro romano e si adattano a coltivare la terra col sistema della colonia, facendo ai nostri campagnoli una concorrenza spietata. I patti colonici sono molto variabili, non esistendo in proposito una consuetudine fissa: per la coltivazione del grano il mercante, per lo più, oltre a fornire la terra, provvede anche metà del seme, fa. preparare per suo conto le maggesi e pensa al trasporto all’ara: l’altra metà del seme ed il resto dei lavori occorrenti sono a carico del colono, meno che la trebbiatura, alla quale pure si provvede per metà dell’uno e per metà dall’altro Il grano alle volte si ripartisce a metà, alle volte invece spetta per due terzi al padrone e per un terzo al colono, secondo la diversa fertilità,del terreno ed altre circostanze. Per il granoturco i patti sono anche più variabili: talora i lavori sono per intero a carico del colono, talora sono, in misura diversa, a carico del colono e del mercante, e così pure varia analogamente la quota di raccolto che spetta a ciascuno. La condizione dei coloni è, per certi aspetti, peggiore di quella dei guitti perché questi lavorano per una mercede meschina si, ma sicura, mentre i coloni, i quali hanno comuni coi guitti le condizioni di abitazione, di vita e di lavoro, non si attendono altro compenso che dal raccolto, che non sempre è tale da rimunerarli adeguatamente dei loro stenti e delle loro fatiche.  E guai se il raccolto riesce mediocre o scarso dal momento che sono tanti i balzelli ai quali il colono deve sottostare, che avrà caro di partirsene a mani vuote, se non, forse, più miserabile di prima. E questi balzelli, più che dal mercante, derivano loro dai contratti, fino a poco tempo fa veramente esosi, che li legano ai loro caporali. Spetta al caporale una coppa (venti chili di frumento) per ogni rubbio di terra, una per la guardiana (questa coppa il guardiano non vede neppure; una per la bestia del colono ed una quarta, il venticinque per cento!, sui generi antistati (anticipati); più una giornata di lavoro, il nolo dei sacchi e così via. Né, in caso sempre di cattivo raccolto, va meglio per il mercante. Come infatti egli potrà indennizzarsi delle anticipazioni di generi fatte ai coloni, durante l’anno, se essi, al termine delle loro fatiche, si. ritrovano poveri come Giobbe? Nelle colonie, adunque, un lucro sicuro, non rimane che al caporale, il quale sa barcamenarsi tanto a dovere da sfruttare il padrone e dissanguare i coloni Non vi è dunque da meravigliarsi se i coloni, almeno fino a pochi anni fa erano fra i più miserabili abitatori dell’agro e se ispiravano in chi aveva occasione di trattarli, o di accostarsi alle loro luride capanne, un senso di pietà e di ripulsione, tanta era la loro miseria e sporcizia. Soggetti, più degli altri, alle malattie e specialmente alla malaria, si trovavano non di rado costretti ad abbandonare il campo dei loro sudori per rifugiarsi al paese nativo, ma con la fame non si scherza, e la fame, dopo poco tempo, li spingeva a tornare nell’agro, ove almeno trovavano una fetta di polenta per sfamarsi. Ora anch’essi, al pari dei guitti. da qualche anno a questa parte, sono riusciti ad ottenere patti più equi e condizioni di vita meno disagiate. Non dormono più nelle capanne (salvo qualche località ove esse non sono ancora sparite) ma in fabbricati igienici, se non comodi; il loro pasto non si compone più unicamente di polenta ed anche nel vestire hanno omesso i cenci e le ciocie per adottare abiti e calzature più decenti. I giovani,poi, che preferiscono godersi i soldi che guadagnano anziché tenerli in serbo, sfoggiano la festa, colletti, anelli e orologi e le ragazze, stivalini col tacco rialzato alla moda cittadina. Anche nel parlare si studiano di adoperare un linguaggio meno rozzo di quelli appreso nei loro paesi, ma prima che anche su questo punto si siano completamente inciviliti, occorrerà tempo molto ..... scuole. Per ora quelli che vogliono parlare civile riescono soltanto.....a far ridere chi li ascolta.

I cicoriari

I Cicoriari non sono veri e propri campagnoli perché non risiedono in campagna, ma a Roma. Essi però in campagna esercitano la loro industria o, per meglio dire, le loro gesta ladresche, inquantoché il commercio della cicoria non è che il prodotto di furti campestri, più o meno tollerati, ma pur sempre furti. Alla raccolta della cicoria si dedicano in genere gli uomini: le donne raramente li accompagnano in campagna: per lo più loro s’incaricano della lavatura e della vendita della refurtiva. Il quartier generale di questa gente è nel rione Regolo e non di rado capita di vedere per quelle strade le donne sulla soglia delle loro case, intente a capare[14]  la cicoria, che poi la mattina portano coi canestri nei vari luoghi di rivendita. Tra coloro che si recano a far la cicoria vi sono uomini di tutte l’età, dal vecchio bianco per antico pelo al ragazzo decenne: sono provvisti di un coltello lungo e sottile, ovvero di uno zappello, svellere le pianticelle, e di un sacco che portano legato a mò di zaino, con due cordicelle che passano loro sotto le ascelle. Alcuni, più fortunati, hanno un piccolo carretto, trainato da un magro asinello: essi si spingono nelle tenute più lontane e vi pernottano, anche, qualche volta, ricoverandosi nelle capanne o nelle grotte. I cicoriari sono, come ben s’immagina, gente praticissima dell’Agro romano, conoscono i nomi di tutte le riserve delle tenute che frequentano e sanno anche, e questo è ciò che loro più importa, dove vi è un guardiano “micco” (minchione) e dove invece ve n’è uno energico, capace di metterli a dovere. Poiché i cicoriari, per i danni che recano colle loro ruberie, sono lo spavento dei mercanti, che, quando li vedono, dicono “ecco il fuoco” I guardiani hanno perciò ordini severissimi di non tollerare le loro invasioni e procurano di fare rispettare questi ordini meglio che possono per evitare rimbrotti ed anche il licenziamento; ma non sempre la cosa è facile. I cicoriari, cui. preme di buscarsi qualche po' di soldi, dinnanzi alle minacci dei guardiani fingono di non sentire, ovvero fanno, come si suol dire, “le pecore” cioè si raccomandano e fanno le viste d’andarsene, ma, se questi espedienti non giovano, qualche volta si ribellano e minacciano a loro volta. Il guardiano, trovandosi di fronte ad un gruppo di sei, otto, o dieci persone e vedendosi in pericolo di essere attorniato, per lo più si ritira: talora pero se è una “pellaccia” cioè un’anima persa, imbraccia il fucile e spara: così la lite finisce tragicamente. Fino a pochi anni fa sulla via di Boccea, presso il Ponte della Valle di Montespaccato, esisteva una rozza croce, che ricordava l’uccisione d’un cicoriaro, certo Falleroni. Tra i guardiani più temuti erano Carboni, Belardinaccio, Toto, Angelino il farnese, ed altri: i cicoriari li conoscevano per fama se non per esperienza e passavano lontano dalle tenute da loro guardate. Il mestiere del cicoriaro è molto faticoso, ma. frutta discretamente perché a Roma di cicoria se ne consuma molta ed è anche ben pagata: tanto è vero parecchie persone venute nell’agro romano, specialmente dalla Ciociaria, per lavorare la terra, dopo un certo tempo abbandonano questo lavoro per mettersi a fare i cicoriari.

I gramicciairi

Affini ai cicoriari sono i gramicciari, una volta numerosi, ora quasi scomparsi.
Un tempo si facevano le maggesi che duravano da gennaio a ottobre ed in mezzo a esse germogliava rigogliosa la gramigna, che i gramicciari raccoglievano senza fatica, seguendo gli aratri. Andavano sempre scalzi e d’estate quasi nudi, caricavano la gramigna su un carretto tirato da un somaro o da un vecchio ronzino e andavano poi a lavare le loro merce in una delle fontane di. Roma: il loro punto di convegno era anzi una fontana che fino verso il 1885 sorgeva sulla piazza allora sterrata di S. Maria Maggiore, ove ora è l’obelisco. la gramigna più bella e più grossa era venduta ai farmacisti per otto soldi la decina (Kg. 3,333)

I giuncaroli

Nelle tenute paludose come presso Ostia, Fiumicino, Maccarese, crescono in grande quantità i giunchi, pianta che non ha foglie, ma steli molto fitti e numerosi aguzzi e pungenti all’estremità. Questi steli lunghi e flessibili servono, come vimini, per legare latticini, salumi, erbaggi ecc. Vi è in tenuta un vaccaro vecchio? Un bufolaro importante che non trova più nessuno che lo assuma in servizio? A lui è riservata l’arte del giuncarolaro che, insieme a qualche tozzo di pane regalatogli dagli antichi compagni d’azienda, gli permette di non morire di fame. Questa la sorte che attende il campagnolo dopo consumata la miglior parte della vita in servizio dei mercanti! Anche qualche campagnolo valido fra quelli addetti alla tenuta, nelle ore di ozio si dedica alla raccolta dei giunchi: il guadagno che ne ricava è in più della paga.

Gli ossari

Fino a pochi anni or sono, quando le regole più elementari dell’igiene nell’agro romano erano ancora sconosciute, le bestie morte di malattia, cavalli, buoi, vacche, non si seppellivano ma si scuoiavano e si lasciavano allo scoperto in campagna. Ma non dovete credere che si imputridissero..... non ne avevano il tempo! I bifolchi, se si trattava di buoi, ed i vaccari, se si trattava di vacche, asportavano subito e si dividevano la carne migliore (quella buona), il resto spettava ai guitti che se lo disputavano come tanti lupi affamati. I cavalli erano il pasto dei cani delle volpi, dei falchi e delle cornacchie. Come facilmente si comprende, dopo poco tempo, della bestia non restavano che le ossa, le quali erano raccolte dagli ossari. Era una classe assai ristretta, ora scomparsa, che non godeva molta fama di onestà, perché molte volte gli ossari non si contentavano di appropriarsi delle ossa abbandonate, ma estendevano la loro attività ad altri oggetti che loro capitavano a portata di mano. Giravano con un carretto trascinato da un vecchio e spelacchiato ronzino di una magrezza spaventosa, tanto che n’era derivato il detto: pare il cavallo d’un ossaro. A proposito dell’usanza di mangiare la carne delle bestie morte va notato che i vaccari e i bifolchi solevano ritagliare tale carne in tante strisce, che poi, condite con sale, pepe e finocchi, si appendevano al camino per farle essiccare. Erano le cosiddette “capprette” che molti ricorderanno di aver veduto vendere anche nelle vie di Roma. I vaccari ne erano provvisti tutto l’anno ed anche i capi d’azienda spesso le mangiavano con gusto. Ma, mi si domanderà, non era dannoso alla salute cibarsi di carne di bestie morte di malattia? Ricordo che una volta nella tenuta di Torre Nova, ove il Principe Paolo Borghese aveva impiantato un allevamento di razze vaccine mediante incroci della razza nostrana con razze esotiche (incrocio che dava ottimi risultati) morì una vacca grassissima di razza estera. Un distinto veterinario costatato che si trattava di un caso di carbonchio, ne ordinò e fece eseguire l’interramento. Ebbene, lo credereste? La notte la vacca fu dissotterrata e scarnita e la mattina dopo nella buca non si trovavano che le ossa. Nessuno fra i lavoratori della tenuta ebbe tuttavia a soffrirne alcun disturbo. Un’altra volta invece a Prima Valle fu mangiata una vitella grassissima, morta improvvisamente. Coloro che se ne cibarono non ne soffrirono conseguenze letali; ma per due giorni furono incapaci di lavorare.... Pareva che stessero facendo la cura delle acque di Montecatini. Ora le bestie morte si seppelliscono; lasciandole allo scoperto si corre il pericolo di vedersi applicare una buona multa dall’Ufficio di Igiene.

I topari

Nelle nostre campagne abbondano le talpe. Sono animaletti poco più grossi di un topo, coperti di un pelo lucido, morbido, vellutato, privi quasi del tutto della vista, ma provvisti di ottimo udito. Vivono sotterra, ove scavano gallerie lunghe e strette ed accumulano la terra scavata in tanti piccoli mucchi (detti tipinare) di forma rotonda e di una circonferenza di circa 50 centimetri. In certi punti questi mucchi di terra sono così numerosi e spessi da dare quasi l’illusione di maggese mal fatta. La talpa è moto nociva all’agricoltura, perciò per distruggerla vi sono appositi individui, quasi tutti abruzzesi, che rimangono nelle nostre parti da novembre a marzo e che si occupano unicamente di dar la caccia alle talpe. La caccia si fa o con la trappola col zappone. La trappola, di legno, di forma rotonda viene immessa nelle gallerie. Col zappone si opera così: il toparo si tiene dritto, immobile, col zappone alzato nel punto ove si accorge che vi è la talpa. Appena questa risale verso la superficie per gittar fuori la terra scavata, con un colpo di zappone estrae la bestia e la uccide. Al toparo spettano 20 centesimi per ogni talpa uccisa, più la pelle che si vende pure per 20 centesimi. Con queste pelli si confezionano bellissime pellicce per signora del costo di molte centinaia di lire. E’ una nuova industria che è sorta in seguito alla grande voga presa dalle pellicce: prima le pelli di talpe si sotterravano come cose di nessun valore. I topari, oltre le talpe, catturano anche i sorci (topi campagnoli) mediante certe trappole (archetti) e per ogni cento sorci uccisi si percepiscono dalle 3 alle 3,5 lire.

Cacciatori lanciatori accavallatori

I cacciatori che frequentano l’agro romano sono nella grandissima parte dilettanti, che risiedono in città e di loro non è il caso di parlare nel nostro libro. Il descrivere i tipi e le macchiette che s’in-contrano in questa categoria di persone e le scenette più o meno gustose cui spesso dà luogo la loro presenza in campagna sarebbe un compito non breve ed estraneo all’assunto che ci siamo proposto; spenderemo invece due parole sui cacciatori di mestiere, che risiedono abitualmente in campagna e traggono dalla caccia, in tutto o in parte, i mezzi di sussistenza. Vi sono cacciatori di reti e cacciato-ri di fucile. I primi sono quasi tutti nativi di camerata, presso Arsoli, epperciò sono detti comunemente cameratani. Vengono nelle campagne in settembre, quando s’inizia il passo delle al-lodole e, finita questa caccia, si dedicano a quella degli uccelli, vale a dire dei pivieri e delle pavon-celle. Per solito non cacciano per conto proprio, ma sono stipendiati da qualche signore dilettante di quel genere di caccia, che pure non manca d’emozioni: sono abilissimi nel loro mestiere e la bravu-ra consiste non soltanto nel sapere ben disporre le reti e nel tirarle nel momento opportuno, in modo da farvi incappar dentro il maggior numero possibile di volatili, ma anche nell'imitare col fischio il canto dei vari uccelli che così più facilmente sono attirati nella rete.
Tra i cacciatori di fucile, alcuni sono stipendiati da qualche mercante di campagna o proprietario di tenute: percepiscono una mercede mensile fissa e una mancia quando sballano in altre parole ucci-dono in un giorno più di cento volatili della stessa specie. Tra questi cacciatori è stato famoso Scar-zone, stipendiato dai mercanti di campagna signori Ferri, il quale non solo ha compiuto vari sballi nella caccia delle quaglie (cosa una volta non rara nelle giornate di passo durante il maggio) ma è riuscito anche a fare qualche sballo di beccaccini: il che non capita davvero a tutti i cacciatori.
I cacciatori di fucile, che esercitano la caccia a scopo di lucro e per conto proprio, erano abbastanza frequenti nei tempi andati: allora non si parlava ancora di bonifiche e per la scarsezza e per il costo dei mezzi di comunicazione pochi potevano permettersi il lusso di recarsi nei luoghi d i caccia a scopo di divertimento; la selvaggina era quindi molto più abbondante che non sia ora.
I cacciatori di professione, provenienti in dai monti dell’Abruzzo della Ciociaria e della Sabina, scendevano da noi verso novembre, prendevano alloggio in qualche capanna od osteria di campagna ed in giugno, finita la caccia delle quaglie sul mare, o se ne tornavano ai loro monti: le località pre-ferite erano le paludi pontine, Ardea, Pratica, Ostia e Maccarese.
La selvaggina che uccidevano la vendevano ai cosiddetti festucari, incettatori che la spedivano e la rivendevano ai pollaroli romani: altro guadagno non disprezzabile ritraevano accompagnando sui posti di caccia i cacciatori dilettanti che capitavano qualche volta da Roma ed istruendo i loro cani, e così, nelle annate favorevoli, raggranellavano un discreto gruzzolo.
Non pochi cacciatori di professione hanno potuto formarsi nel loro paese una piccola possidenza, ovvero hanno acquistato un'osteria od altro negozio che ha loro permesso di menare in vecchiaia una vita più tranquilla e meno disagiata. Ora, per la diminuita selvaggina, di questi cacciatori se ne incontrano ancora taluni pochi nelle paludi pontine, ma nel resto dell'Agro sono, si può dire, scom-parsi: oltre che colle reti e col fucile, la caccia è esercitata nell'Agro romano anche con altri mezzi, di cui alcuni vietati dalla legge, come i lacci e la lanciatora. La caccia coi lacci è fatta in genere dai pecorari, quella con la lanciatora e molto caratteristica e merita di essere descritta. I lanciatorari so-no anch'essi di camerata: di giorno attendono ai lavori agricoli e nelle nottate buie, quando manca la luna, ovvero è nuvolo fitto, vanno a caccia con la lanciatora, ossia con una rete assicurata all’estremità di un bastone. Il loro aspetto è veramente singolare: colla mano sinistra impugnano il manico della lanciatora che poggia sulla spalla; sulla parte anteriore del corpo portano, legata alla cintola, una lanterna accesa che manda vivi di sprazzi di luce e colla destra tengono un campanaccio di quelli che si sogliono legare al collare dei buoi. Procedono per la campagna in mezzo al buio fitto saltando fossi e scavalcando staccionate ed agitando continuamente il campanaccio che manda un suono lugubre e cadenzato. L'allodola dorme in mezzo ai prati ed ai solchi delle maggesi: il suono del campanaccio attutisce il rumore dei passi dell'uomo e dà alla selvaggina l'illusione che s'avvicini un animale pascolante; la luce vivida della lanterna l'abbaglia, la stordisce, e di quel momentaneo stordimento profitta il cacciatore per gittarle addosso la rete. Si prendono in questo modo molte al-lodole ed anche beccaccini e beccacce. Uno dei posti più frequentati dai lanciatorari era la tenuta dell'Osa ed altre tenute limitrofe, poste alle falde dei monti Laziali, sotto Colonna e Monte Porzio. D’ottobre era uno spettacolo veramente impressionante il vedere, dai monti Laziali, tutti quei lumi che nel buio della notte si aggiravano per l’immensa distesa sottostante, mentre l'eco portava il rin-tocco dei campanacci. Trattandosi di un genere di caccia proibito i carabinieri hanno talora tentato di sorprendere sul fatto i lanciatorari, ma raramente vi sono riusciti: poco pratici della campagna, se si azzardavano a lasciare la strada battuta per inseguire i lumi vaganti, rischiavano di smarrirsi o di cadere in qualche fosso. In seguito ai reclami dei cacciatori romani, che si vedevano danneggiati dalla concorrenza dei lanciatorari, una volta fu mandata nella tenuta dell'Osa una squadra di guardie di questura con l'incarico di reprimere il bracconaggio. Queste guardie, esercitandosi un giorno al bersaglio con le rivoltelle, uccisero casualmente una giovane contadina che stava lavando panni in un fosso. Il senso di pietà destato da tale disgrazia fu più efficace che il timore delle guardie; i lan-ciatorari smisero le loro spedizioni notturne. Un altro genere caratteristico di caccia è quello che è praticato nelle Paludi Pontine e che si praticava a Campo Salino prima della bonifica idraulica dagli accavallatori. E' una caccia molto produttiva che non richiede speciale abilità di tiro, ma conoscenza dei posti, buona vista, buon udito e salute a prova di bomba, poiché, in genere, si fa di notte in posti paludosi, ove l'acqua spesso supera l'altezza del ginocchio. Il cacciatore gira per la campagna a ca-vallo di un ronzino, armato di una vecchia spingarda a bacchetta e munito di un carniere a forma di sacco, che porta a bandoliera: appena si accorge che in un dato punto si è posato un branco di volatili - per lo più anitre selvatiche, talvolta pavoncelle, pivieri, o colombacci - discende dal cavallo e cammina a fianco di esso, col dorso curvo, in modo da nascondersi completamente alla vista della selvaggina. Anche il cavallo è obbligato a camminare pian piano, col muso a terra come se pascolasse, affinché gli uccelli non si spaventino vedendolo avvicinare. Appena il cacciatore è giunto in tal modo a tiro della selvaggina appoggia la spingarda sul dorso del cavallo, spara un colpo che, nella solitudine della campagna, rintrona come una cannonata e quindi va a raccogliere le vittime che spesso sommano a quindici o venti ed anche più. Vi è poi la caccia ai ricci, alle spinose (istrici) ed ai tassi. Anche questa caccia si pratica di notte non occorre fucile, ma basta il cane ed un bastone. Il cane scovata la preda abbaia, il padrone accorre e col bastone uccide la selvaggina, cosa abbastanza facile se si tratta di ricci o di spinose, i quali non fuggono, ma si raggomitolano, drizzando i loro aculei. I tassi invece si mettono sulla difesa e cercano di mordere; occorre quindi far attenzione per non essere addentati. Il cane che ha scovato l'istrice torna spesso con qualche aculeo conficcato nella pelle: i contadini sono perciò convinti che l'istrice possa lanciare i propri aculei contro chi l’assalisce ma non è così; gli aculei aderiscono molto leggermente alla pelle dell'istrice e facilmente se ne distaccano; il cane spesso si lancia contro l'istrice e, sentendosi pungere, si tira indietro strappando qualche pungiglione che gli resta conficcato addosso.

I Salnitrari

Fino a venti anni fa dalle grotte esistenti nell'agro romano si estraeva il salnitro, che naturalmente vi si formava. Col salnitro, misto al carbone ed allo zolfo, si fabbricava la polvere da sparo. Alla rac-colta del salnitro erano addetti i salnitrari - quasi tutti abruzzesi - donde il ritornello:
Fiore d'alloro
Me lo voglio sposare un salnitraro
Se azzecca la stagion mi veste d'oro.
Se azzecca vuol dire se indovina: infatti, la raccolta del salnitro era abbondante nelle stagioni umide e piovose, scarsa in quelle secche.
Oggi la polvere si fabbrica con procedimenti chimici più perfetti e l'industria dei salnitrari è finita.

Gli Sparaciari

Gli asparagi - questo gustoso erbaggio che si cucina in tanti modi - si trovano nei boschi dell'agro romano durante i mesi da febbraio a giugno: alla loro raccolta si dedicano gli sparaciari - in genere reatini, che però esercitano anche altri mestieri.
Tagliando le bacchette di nespolo colle quali si fanno manici per le fruste, confezionano quei grossi bastoni fatti ad uncino che sogliono portare, come canna da passeggio, i sensali di bestiame ed in febbraio cominciano a raccogliere gli asparagi, che poi rivendono a buon prezzo, essendo questi er-baggi molti ricercati. Alcuni portano una bisaccia dietro le spalle, altri hanno un somarello: ogni due o tre giorni vengono a vendere la merce a Roma.
Le tenute più frequentate da loro sono Boccea e Tragliata.

I Violari

In febbraio comincia pure la stagione delle violette, che numerose ..fioriscono nelle spallette mac-chiose, sul margine dei fossi e in altre località ombrose. A raccogliere le viole si dedicano uomini e donne d’infima classe sociale, abitanti per lo più nel suburbio di Roma. Essi portano una cesta in cui ripongono le viole sciolte che poi ricoprono d’erbe per mantenerle fresche. Le violette legate in mazzolini, si vendono per le vie di Roma più frequentate dai forestieri che volentieri le comprano

I Ranocchiari

Questa è una classe che ancora si mantiene abbastanza numerosa, perché le ranocchie nelle nostre campagne sono abbondantissime ed in Roma se ne fa un largo consumo.
Il regno dei ranocchiari è Maccarese: scalzi entrano nei fossi, vi stendono una rete e quindi, batten-do sulle rive, obbligano le ranocchie a saltar dentro il fosso, ove rimangono impigliate nella rete. Altri invece adoperano una canna ed una specie d’amo.
Le ranocchie sono poi rinchiuse in sacchi e spedite ancora vive e gracidanti a Roma, ove si vendono un tanto la dozzina

I Mignattari

I mignattari sono i raccoglitori ai sanguisughe, le quali, com’è noto, una volta erano molto usate in medicina. I farmacisti le acquistavano per rivenderle ed in molte case ai tenevano pronte per ogni evenienza. Ora le sanguisughe si usano soltanto in casi rari e quindi la classe dei mignattari è dimi-nuita sensibilmente. Chi ha avuto occasione di frequentare le paludi di Maccarese avrà talora veduto due o tre uomini vestiti della sola camicia, colle gambe nude affondate fin sopra il ginocchio nel pantano, tutti intenti a menar forti colpi di bastone sull'acqua che li circonda. A prima vista c è da prenderli per matti fuggiti da qualche manicomio. Sono essi i mignattari. Le sanguisughe, impaurite dal rumore dei colpi, escono dalla melma ove vivono e si attaccano alle gambe del mignattaro. Que-sti le prende, comprimendole e le ripone in un cestino di vimini (cerignolo) ovvero in una bottiglia ov'è un poco d'acqua. Nei giorni di grande caccia il povero mignattaro esce fuori dell'acqua mezzo dissanguato.

Altre Piccole Industrie


Lumache more cazzaporri

Le lumache si raccolgono in varie epoche dell'anno, ma specialmente quando è prossima la festa di S. Giovanni (24 giugno), perché un'usanza popolare romana vuole che nella notte che precede quel-la festa si faccia gran consumo di lumache. Molti perciò si dedicano, in tale occasione, alla raccolta di questo mollusco, che ama passare quando la terra è molle di pioggia o di rugiada.
E le more chi non le conosce? Esse crescono in quantità nei roveti dell'agro romano, nei boschi e lungo le siepi, ed anch'esse sono oggetto di speculazione per parte di povera gente che si dedica a raccoglierle e poi le rivende a Roma. Caratteristica è la cantilena con cui i morari offrono la loro merce: “Chi le magna le moore (frutto) E chi nun le magna moooore! (crepa !) ”.
E i raccoglitori di cazzaporri? Sapete che cosa sono i cazzaporri? Sono i fiori o frutti (un botanico ve lo potrà dire con precisione) di una certa pianta detta comunemente scarsica che cresce nei terreni acquitrinosi. Questo frutto, o fiore che sia, ha forma cilindrica allungata, come un dito ed è pieno di certa peluria che una volta l'amministrazione delle ferrovie acquistava per imbottirne i cuscini dei vagoni.

Non è il caso di parlare delle api e dei bachi da seta, due industrie quasi sconosciute nell'Agro ro-mano. Si sono fatti tentativi per istituirle e diffonderle, da Enrico Canè per gli alveari e da D. Paolo Borghese per i bachi ma non hanno attecchito. Eppure quante risorse non potrebbero offrire ai nostri campagnoli queste piccole industrie, razionalmente esercitate? Ma, mentre i contadini della Lom-bardia dell'Emilia ed anche delle Marche e dell’Umbria, sanno trarre partito da ogni più spregevole fuscello, i nostri appartengono ad una razza momentaneamente indolente e fatalista che tutto ai a-spetta dall'aiuto del cielo e pare che non sappia adoperar le braccia se non per portarsi il pane alla bocca. Speriamo negli effetti dell'istruzione e del progresso, ma.. ...il sonno è ancora profondo e non credo che il risveglio sia prossimo.

Pollame e porcili

Nei casali e nelle capanne dove più dove meno ma sempre in quantità esigua, si alleva un po’ di pollame. È una piccola industria esercitata un po’ da tutti. Il mercante di campagna possiede gene-ralmente un buon numero di galline che affida ai pecorari od al guardacasale: i fattori, i massari, i capoccia (non i bifolchi né i vaccari) i caporali, i coloni, qualche guitto tutti s’industriano a tenere un po’ di galline e ne ricavano qualche utile con poca spesa poiché le galline spaziano per la cam-pagna e quindi non occorre di fornirle di molto nutrimento. Vi sono poi i cosiddetti gallinari, che dalle montagne vicine scendono nell'Agro e vi si trattengono da ottobre a giugno esercitando esclu-sivamente l'industria delle uova. Fabbricano le loro capanne sconnesse lungo le vie provinciali, ac-quistano, al loro arrivo, le pollanche e, quando partono, rivendono le galline ai pollaroli: così pure fanno tutti coloro che non hanno dimora fissa nell'agro, ma ne partono d’estate. Le uova si vendono agli ovaroli. Sono così chiamati certi individui, abitanti per lo più nel suburbio di Roma, che girano per la campagna coi loro carrettini ed acquistano quante uova trovano. Una volta facevano buoni af-fari, poiché le uova le acquistavano a poco prezzo (anche a L. 5 al cento) ora non si vendono mai meno di dieci lire. L'industria delle galline frutta più o meno secondo i casi. Il mercante, il quale ha i rimasugli dell'ara e può far spaziare liberamente le sue galline, ne ricava un utile maggiore che non il colono o il guitto, il quale ha poco spazio disponibile e deve acquistare a contanti il necessario per mantenerle. Si può calcolare che ogni gallina renda annualmente da L. 3,25 a 4,50 nette tenendo an-che conto della merce. I pulcini si fanno nascere sotto la chioccia e non colle incubatrici. L’allevamento d’altri volatili da cortile (tacchini, anitre) e quello dei piccioni è insignificante.
L'allevamento dei porci è praticato nei paesi prossimi a Roma, nell'Agro romano vero e proprio di porci se ne trova qualcuno nei singoli casali e nelle capanne dei pecorari detti moscetti, i quali li nu-trono colla scotta (siero). Gli allevamenti all'ingrosso sono rari: un allevamento di porci bradi esi-steva molti anni or sono a Maccarese: altro considerevole allevamento era tenuto dal Duca Gaetani, presso Cisterna, sulla Via Appia, nel casale detto una volta Porcareccia, ora Casal delle Palme. Ivi era anche un capoccia di maiali! In tempi non lontani il sig. Settimio Mancini allevava nelle sue te-nute della Farnesina e della Valchetta una razza di porci veramente splendida: basti dire che un ver-ro pesò sei quintali! Una bellissima razza, detta razza York è pure quella del sig. ing. Ceribelli, uno dei pionieri della bonifica dell’agro romano. Nel suburbio di Roma ora si tengono parecchi maiali che, invece che con la ghianda, sono nutriti con i rifiuti delle osterie e colle immondizie della città. Figurarsi che carne! Eppure anche questi porci ai vendono al mattatoio di Roma, ed a che prezzi!

Le Spigarole

L'usanza o, per meglio dire, il diritto di raccogliere le spighe nei campi altrui, dopo che vi sono pas-sati i mietitori, risale ai tempi biblici.
Chi non ricorda la storia di Rut, la bella spigolatrice, che recatasi a raccogliere la spica nel terreno del ricco Boot, finisce per diventare la moglie del padrone?
Anche ai giorni nostri vi sono le spigolatrici o, come ai dice nell’Agro romano, spigarole, ma credo che difficilmente capiti loro la fortuna toccata alla loro compagna dell’antico testamento. Effetto dei tempi cambiati. E sembra che non soltanto ve ne siano nell’Agro romano ma un po’ dappertutto: il Millet le ha prese per soggetto di un suo quadro che tutti hanno potuto ammirare riprodotto in mi-gliaia di stampe e di cartoline illustrate. Un proverbio delle nostre campagne avverte che non tutto il grano va al granaro e, di fatti, molte sono le spiche che rimangono in terra perché sfuggite alla fal-ciola del mietitore, o cadute nel formare le gregne (covoni). Di queste spiche se ne fanno dei grossi mazzi, detti manocchi o mannati, che poi si sfregano su una pietra od altro per farne uscire il grano. Una persona svelta ed attiva al termine del lavoro può aver messo insieme persino un quintale e mezzo di grano pulito. La spigolatura s’inizia appena dal campo mietuto sono stati asportati i cor-delli o casole (mucchi) formati delle gregne allineate e sovrapposte: coloro che ai dedicano sono in maggioranza donne: non mancano però uomini e ragazzi perché il lavoro è rimunerativo e quindi all’epoca della spigolatura intere famiglie vanno a spigolare. Ogni persona che si reca a spigolare nell’Agro romano deve rilasciare un soldo al giorno a beneficio del guardiano. La spigolatura si comincia la mattina di buon'ora e si sospende nelle ore più calde: la sera tutti tornano alla loro casa, se questa è vicina, altrimenti dormono sul campo sotto gli alberi. Le spigolatrici dell'Agro romano appartengono a famiglie abitanti nel suburbio di Roma o nei paesi circostanti: le zone più battute sono naturalmente quelle prossime ai centri abitati.

TIPI CARATTERISTICI


Zi' Ndrea Reale

Era un bifolco nel 1870 si trovava nella tenuta di Decima, al servizio dei fratelli Ferri “Testa irsuta, ampie spalle, ibrida e tozza persona”. Era un tipo davvero Carducciano, secondo la descrizione che dell’illustre poeta ha fatto il Rapisardi in un suo famoso .......e velenoso sonetto. Zi' Ndrea Reale, dunque, aveva due occhi da stralunato che sembrava gli avessero ad ogni istante da schizzare fuori dalle orbite, ed aveva la specialità delle frottole che snocciolava giù con una disinvoltura ed un san-gue freddo mirabili Raccontava - cioè dava ad intendere - che nel 48 si era battuto contro i Francesi insieme con Giggi Biondi e che Bologna e Moretto altri due bifolchi che guasconeggiavano come il nostro soggetto gli buttavano le pagnotte dalle mura del Vaticano. Si vantava pure grande amico di Garibaldi “Canobbardi” com’egli lo chiamava, di Mazzini e, l’opportunismo non è mai troppo, di Pio IX. Asseriva anzi di avere aiutato questo Pontefice, quando, nel 48, fuggì a Gaeta.

Garlaccio

Quest'altro bifolco nei rapporti fisici era tutto l'opposto di Zi' Ndrea: figuratevi un coso allampana-to, bislenco.... Aveva un fusto esile e snodato, agile come il corpo di un gatto, completato da una piccola testa di faina dagli occhietti irrequieti ed infossati. Per la roba degli altri aveva una passione irresistibile e, se fosse vissuto in un ambiente civile, sarebbe divenuto un vero artista del furto, un secondo Rocambole. Ma, purtroppo, non tutti hanno il destino che si meritano; ed il povero Carlac-cio, in mancanza di scrigni preziosi e di biglietti di banca, doveva esercitare i suoi talenti fra le gal-line e le pecore; e s'ingegnava coscienziosamente, a far sparire le une e le altre come meglio poteva! Come aveva adocchiato un pollaio, Carlaccio, a guisa d'un bravo generale, architettava ipso facto il suo piano strategico: e', non appena annottava.... paff! Il colpo già era eseguito. Così, pure, lavorava nelle mandrie delle pecore, dove riusciva meravigliosamente ad eludere la vigilanza dei cani. Rac-contava che, quando si partiva dal suo paesello posto nei dintorni di Manziana, le donne piangevano e lo accompagnavano sin fuori dell’abitato. Dunque te volevano bene, eh Carlà ...?.., - gli dicevano i compagni; e lui: Siii! Avevano paura che me fussi aritornato!!

Furbiaccio

Burlone e ciarliero fenomenale, questo bifolco - morto nel 1896 - non pensava che a bere, giocare ed attaccar briga: sentiva, proprio, la necessità imperiosa di buscarsi, di tanto in tanto, degli scapac-cioni....quando non erano coltellate. D'indole comicissima, aveva certi particolari modi di esprimer-si che provocavano l'ilarità più irrefrenabile. Nell'aprile del 1889, lavorando a Maccarese, venne a lite, come il solito, con certi abruzzesi, che si trovavano per quelle macchie; e ne uscì fuori concia-to, proprio, a dovere! Fra le altre busse, avute, aveva ricevuta una pericolosa coltellata alla spalla, e le persone che lo attorniavano si accorsero che dalla ferita usciva il vento. - Ah, c'esce u' ventu...? - esclamò Furbiaccio senza punto scomporsi – “Mbè, deteme u' lume. Gli porsero il lume acceso ed egli, ponendolo innanzi alla piaga, noncurante di trovarsi ridotto così a mal partito, se ne uscì fuori con questa buffonata: Si ‘u ventu smorza 'u lume, bè: si no nu me moro, madonna svizzera!

Pagliaccetto

Una leggenda. Nella tenuta di Torrimpietra, all’estremità a sud-ovest dell’oliveto, si eleva una torre quadrangolare, alta, all’incirca, una quindicina di metri, che poggia su quattro grandi massi calcarei: il tempo l'ha intaccata profondamente ed ora, tutta diruta e smantellata, credo che la Torre de Pajac-cetto non adempia che l’ufficio di ricordare una leggenda. Vogliono, adunque, i nostri bisavoli che ivi fosse un tempo, l’abitazione del celebre Pagliaccetto, capoccia del principe Falconieri proprieta-rio della tenuta. Pagliaccetto aveva il dono singolare di comandare a 99 Malebranche, specie di fol-letti, dei quali si serviva per suo esclusivo comodo, salva la facoltà di adibirli, in casi d'imperiosa necessità ai servizi della tenuta stessa. Essi, difatti, con il loro magico potere, regalarono, una bella mattina, al fattore la sorpresa dell’uliveto e, così pure, in una sola notte costruirono i 99 fontanili di quel tenimento: una volta, poi, che la messe cadeva in terra per deficienza di mietitori, supplirono i sullodati diavoli alla bisogna e tutto andò per la meglio! Un bel giorno, però il sig. Principe - già questi principi sono sempre gli stessi! - dimenticò le tante obbligazioni che aveva con Pagliaccetto e, su due piedi, lo licenziò. L’amico, senza scomporsi punto, mormorò due paroline ai suoi servitori ed allora, incamminandosi egli per andarsene, i buoi, i cavalli, i muli e gli asini e tutto il bestiame della tenuta gli tenne dietro in una strana, mirabolante processione; e man mano che procedeva, le lepri, i tassi, gli uccelli tutti e tutti i rettili ed insetti di quella campagna. si univano a fargli scorta d’onore. E' inutile ricordare che Sua Eccellenza, informato del fatto, si affrettò a revocare l'ordine di licenziamento. In appresso fu un porcaro a dargli fastidio, con lo sfidarlo a tracciare un solco sem-pre diritto e per la lunghezza maggiore possibile. Pagliaccetto, sicuro del fatto suo, accettò subita-mente. Detto e fatto: entrano in una mandra di bovini, aggiogano quattro tori selvatici per ciascuno, come se fossero agnelli, e via con l'aratro per la deserta landa, in direzione del mare. Non esistono ostacoli per la loro bravura; i torrenti non valicati, sfondano le macchie più inaccessibili e, ad un tratto, eccoli addirittura nel mare! E via, così, per l'immensa pianura dell’Oceano dove un altro Mo-sè - e questo con tanto d’autentiche corna! - aveva cura di tenere indietro le acque per far distingue-re i solchi. Giunti avanti parecchio i tori di Pagliaccetto si ricusarono di proseguire; mentre quelli del porcaro tracciavano sempre innanzi. Allora fu che Pagliaccetto mangiò la foglia, come suol dir-si, e fece al rivale: Di' un po’, tu? Quanti ne comandi?- Io?....Cento .....e tu?! ….- Io? ……novantanove!...- e, allora, ti ho vinto......! - gridò il porcaro: e Pagliaccetto perdé la scommessa. Cantò, poi, il Pasquino di quei tempi che:
“Pagliaccetto cò la mente fresca
Face chiede perdono a la ventresca
Pagliaccetto cò la menta dotta
Fece chiede perdono a la ricotta.”
Ma diceva pure il poeta:
“Pagliaccetto che stai cò Faroniere
Nun durerà in eterno la tu' vita
Ché all'inferno ciai fatto un ber quartiere
Pe' quando da ‘sto monno fai partito.”
ed il fatto è questo che, dopo .tante prodezze il povero Pagliaccetto tirò le cuoia come un mortale qualunque. Vuole la leggenda che il suo spirito continuasse a comandare per tre anni successivi alla sua morte, e che ancora esista, a Torrimpietra, guardata dai diavoli, la bardatura del cavallo di Pa-gliaccetto: non so, perché non mi ci trovai, se il famoso capoccia sia tornato in ispirito alla sua tenu-ta, ma, in quanto alla bardatura, posso asserire che, se vedono i miei occhi, là non v'è proprio nulla .
Ercoletto
Questo capoccetta è stato un famoso improvvisatore, dato l'ambiente in cui visse e l'istruzione rice-vuta. A nove anni lasciò la scuola per la campagna ed a quattordici restò orfano d'entrambi i genito-ri. Per i lavori dell'aratro aveva una speciale inclinazione ed, infatti, li apprese alla perfezione: le ore di riposo, poi, le dedicava alla lettura; leggeva assiduamente e, come guadagnava un soldo, lo spen-deva in libri. La poesia lo attraeva maggiormente e acquistò, in breve, gran domestichezza coi clas-sici italiani e con i latini ed i greci, volgarizzati; ed oltre ad una svariata raccolta d’opere poetiche del 1500 e del '700, ebbe pure le storie del Varchi e del Cantù, le istituzioni di retorica del Blair, tradotte dal Soave, il rimario del Ruscelli, ed altri diversi libri. Aveva sortito dalla natura una voce melodiosa, oltre ogni dire, una spontaneità sorprendente ed uno slancio caldo ed appassionato: e tut-te queste belle doti, stimolate da una fervida fantasia e da un’immaginazione inesauribile, davano vita ai suoi versi, smaglianti per la forma, singolari per i concetti, facili per la metrica scrupolosa. Tanta era la sua vena poetica che, nei cimenti che aveva con qualche compagno, si dilettava nel la-sciarsi per sé le terminazioni sdrucciole e più difficili, assegnando al competitore le più piane e co-muni. A 17 anni Ercoletto conobbe gli improvvisatori più celebri di Roma, come Maccheroni, Salu-stri, Artibani, Nasoncino ed altri; ed ebbe, da tutti, lodi ed incoraggiamenti. Conobbe anche Perusi-ni, celebre improvvisatore di Toscanella; questi, trovandosi a Ponte Galera nel 1880, ebbe occasione d'incontrarsi col rusticano trovatore, e, tale fu l'ammirazione che suscitarono in lui i versi d’Ercoletto, da ispirargli due sonetti in merito alla sua rara valentia. Fu, in appresso, a Fiumicino per un paio d’anni, ed ivi pure godeva di misurarsi - sempre vittorioso - in cimenti poetici con quei capitani di bastimenti mercantili, viareggini per la maggior parte, fra i quali ai contavano dei buoni improvvisatori, come, Raffaellino, il Nocino, Passaglia e molti altri. Ercoletto era di carattere e-spansivo e finemente satirico, però molto suscettibile ed incostante: e questi difetti danneggiarono la sua carriera, poiché vagabondando da un padrone all'altro, poco concluse e pregiudicò i suoi reali meriti; tanto che non oltrepassò il grado di capoccetta. Morì non ancora trentenne. In un autunno tri-ste all’ospedale nel pieno rigoglio delle forze fisiche ed intellettuali, mentre stava per impalmare una giovane di Frascati. Purtroppo i fiori di campagna, se hanno un rapido sviluppo, pure egualmen-te presto intristiscono e muoiono! Termino con questa autofotografia, che il povero bardo compose in età giovanissima:
“Ho biondo il crine e, del color del cielo
La mia pupilla spazia nel creato:
M’ha il volto la canicola abbronzato
Par farmi forte sotto un core anelo.
Sento lo slancio ma un eterno gelo
Assidera il concetto appena nato;
L’arte posseggo, sol di Cincinnato,
Un fiore è il mio pensier che non ha stelo.
Oh, se Calliope bella, ond'io tant’ardo
Mi sorridesse, e l'itala favella
Per me non fosse un temerario azzardo!
La vita, che speranza non m'abbella,
Dono saria per me, gallico bardo
Felice canterei con la mia stella.
Cacitto
Una macchietta
Chi nella zona di Maccarese e tenute limitrofe non conoscesse Cacitto, il Figaro dei campagnoli? Egli coll'esercizio del suo mestiere è salito in una meritata celebrità ed ha anche fatto una piccola fortuna. Pel modo come tratta, come parla, come cammina è uno dei tipi più originali e ridicoli che esistano. Sarebbe un ottimo modello per un pittore. Non ha bottega, ma va egli stesso in cerca della sua clientela, girando pei vari casali, ed è buono a girarne sei o sette al giorno, percorrendo parecchi e parecchi chilometri, come fosse il moto perpetuo. Cominciò la sua carriera girando con un rasoio, una pezzuola e la classica meluccia; ora però ha tutto il comfort d'un barbiere alla moda, il pennello, i pettini, la cipria e perfino l'acqua d'addoro. Di rasoi ne ha poi una c collezione e quando apre la busta qualche burlone si diverte a prenderlo in giro: Eh! Cacitto, gli domanda, questo per chi serve? Quiste è pè gli massare. E questo? Quiste pè gli capoccia, quiste pè gli fattoro, quisti duje songhe pe' gli bufurghe e quis' aldre pe gli vaccaro. E quello là lustro, lustro? Eeh! attere! Quante ne vò sa-peje tu! Quiglie è pe' gli Capestaziono. Te va bono mo? Qualche volta accade che un bifolco, fa-cendo radere, urla ed impreca perché il rasoio gli fa male, ed allora Cacitto pronto: E statte cattera: Ca te la stongo a fajo co gli rasoro de gli massare! Ma la grande indiscussa celebrità di Cacitto co-minciò quando ebbe occasione di servire gli “Prencipo”. E' infatti avvenuto che il defunto D. Giu-seppe Rospigliosi, il quale oltre ad essere il perfetto tipo del gentiluomo, sapeva anche all'occasione mostrarsi uomo alla buona ed affabile coi suoi dipendenti, in una delle sue villeggiature primaverili a Maccarese sentì parlare di Cacitto e, lunghi dal disprezzare l'opera del rustico Sfregia, lo fece chiamare più d'una volta per farsi radere la barba. Potete immaginare quanto Cacitto rimanesse lu-singato da quest'onore. D'allora in poi cominciò a darsi arie d'importanza e se qualcuno gli chiede-va: Dove vai Cacitto con questa fretta? Non era .raro il caso che rispondesse: Vaje a fa la barba a Don Geseppo. Prima i caporali di campagna, come massari, fattori, capoccia ecc. quando si servi-vano di Cacitto, non gli davano meno di mezza lira, cosicché quando la sera tornava al suo domici-lio legale di Torrempeutra (Torre in Pietra) spesso portava con sé un discreto gruzzolo. In seguito per la crisi che per un pezzo travagliò le campagne, Cacitto vide scemare i suoi onorari, e dovette anche contentarsi dei 25 centesimi. Egli però, da vero filosofo, seppe fare buon viso a cattivo gioco proseguendo il suo quotidiano giro collo stesso zelo e puntualità dei tempi migliori. Anzi se qualche cliente ricorreva all'opera d’altro barbiere, Cacitto, incontrandolo non mancava di canzonarlo: E cchi cattera t’ha rovinata ssa capara?

I Preti.


Il sentimento religioso è profondamente radicato negli abitanti delle campagne, perciò il prete gode fra di essi di un certo rispetto e di un certo ascendente, anche quando per la sua condotta o per la sua scarsa coltura non ne sarebbe meritevole. Alcuni preti dimorano in campagna per circa nove mesi all'anno ed hanno la loro abitazione nel casale della tenuta. Così è a Lunghezza, ad Ostia, a Traglia-ta, a Castel di Guido, a S. Maria di Galera, a Palidoro, a Maccarese, a Torrimpietra ed altrove. Altri preti invece si recano in campagna la domenica e le altre feste, vi celebrano la messa quindi tornano a Roma. Per celebrare la messa vi sono in genere apposite chiesuole, però in tempo di mietitura sic-come non tutti i fedeli troverebbero posto in chiesa, si celebra all'aperto su di una barrozza. Come in tutte le classi sociali, anche fra i preti delle campagne si trova il bene e il male. Alcuni, dediti alle cure del loro ministero fanno vita ritirata senza impacciarsi di nulla ed usando tolleranza, con coloro che non frequentano le pratiche religiose, altri invece sono fanatici, intriganti, amanti della ciarla e del pettegolezzo, quando non danno scandalo addirittura. Del reato la condizione dei preti che di-morano in campagna è abbastanza infelice di fronte a quella dei colleghi di città. Mal retribuiti, co-stretti all'isolamento od al contatto di gente rozza ed ignorante, hanno da lottare contro l'ozio e la noia; epperciò non fa meraviglia che taluno di essi cerchi d'ammazzare il tempo colla maldicenza, col gioco e col resto.
Narro qualche aneddoto a loro riguardo.
Un certo P. Carretta nel 1867 recandosi in carrozza a dir messa a Torrenuova, vide in lontananza delle persone che portavano panni rossi. Essendo un po’ miope li credé garibaldini, per cui, tutto spaventato, ordinò al vetturino di retrocedere di corsa. Invano il vetturino cercò di fargli capire che non erano garibaldini, ma donne di Camerata (provincia di Roma) che, secondo l'uso del loro paese, portavano panni rossi in testa: il prete non volle sentir ragione e non si sentì tranquillo finché non ebbe ripassato le porte di Roma.
Nella tenuta di Campomorto, avvenne una volta che si trovassero presenti ad una predica molti uo-mini ed una sola donna. Il prete predicava contro la corruzione del secolo e nella foga della sua pe-rorazione si espresse così: E tu, o donna, lascia quella pratica, ecc. al che tutti si voltarono verso quell'unica donna, con quanto piacere della medesima è facile immaginarlo.
Un altro prete spiegava dal pulpito ai suoi uditori come un villano fosse più felice di lui. E sapete perché? Perché il villano qualunque erba trova, la raccoglie e se ne ciba mentre esso predicatore do-veva contentarsi d'una gallina cotta nell'acqua!
A santa Marinella un predicatore abruzzese diceva: popolo mio! Die è 'nda (come) n'alocche: sta drent'a na bucia, vede e non è vedute.
Un altro nel natale del 1895 parlava dei pastori che, visitato il bambino, al loro ritorno "narrarono al loro gregge quanto avevano veduto."
Alla tenuta del Cavaliere un prete terminava la messa in sedici minuti.
Ciò mi ricorda un altro fatto che ho inteso narrare come avvenuto a Pantano di Borghese. Un guar-diano, avendo perduto per tre feste la messa, a causa della fretta del prete, si pose in capo di esser scomunicato. La festa successiva si recò perciò in chiesa per tempo e mentre il prete celebrava gli tirò una fucilata. Il fatto sarebbe avvenuto nella stanza del casale di Pantano che ora serve di dispen-sa e che ancora serba sulle pareti le tracce delle pitture sacre che vi erano quando serviva ad uso di chiesa.
Fatti analoghi si raccontano però anche per altre tenute, anzi in una di esse si mostra una buca che si sarebbe miracolosamente aperta per inghiottire l'autore della fucilata.

Santi


Come in un'azienda bene ordinata ogni persona ha le sue speciali attribuzioni, così anche in Cielo l'incarico di difendere e di proteggere i miseri mortali e le loro cose, è ripartito fra i vari Santi, o-gnuno dei quali ha perciò un particolare campo d'azione.
San Martino, oltre ad essere il protettore delle corna in genere e dei loro proprietari, bipedi o qua-drupedi, protegge, in modo speciale le capre per un favore che, secondo la leggenda, avrebbe reso ai pastori, insegnando loro a fare la ricotta cogli avanzi della lavorazione del formaggio, che prima andavano perduti.
Sant'Isidoro è protettore dei buoi e dei bifolchi, perché, racconta sempre la leggenda, mentre stava arando, fece scaturire miracolosamente una sorgente d'acqua.
Le pecore e i pecorai sono, non so per qual motivo, sotto la protezione di S. Pasquale e se in cam-pagna taluno vuol lanciare un'imprecazione ad un pecoraro, non manca di comprendervi anche S. Pasquale: "A te e a S. Pasquale", spesso coll'aggiunta dell'accio come vezzeggiativo.
S. Enrico protegge le vacche e i vaccari, S. Silvestro i muli, S. Giorgio i cavalli, S. Ninfa le mosche, S. Bernardo i Gatti. I cani hanno poi tre protettori: San Vito, San Domenico, San Rocco. E tanti cri-stiani non sanno a che santo votarsi!
A proposito di S. Silvestro e dei suoi protetti, sul tracciato dell’antica via Flaminia, presso la nuova, fra il 24° e il 25° miglio, vi è una pietra basaltica, sulla qual è impresso un ferro di mulo, lungo 16 Centimetri, largo 10 e con un'apertura di 5 centimetri all'estremità.
Narra una leggenda che S. Silvestro, partendo dal suo eremo sul monte Soratte per venire a Roma a battezzare l'imperatore Costantino e guarirlo dalla lebbra, vi giunse con soli tre passi del suo mulo. L'impronta che esiste sulla pietra è l'orma prodotta dal piede del mulo col primo passo.
Nella stessa località, detta quarto di S. Silvestro, esiste un'altra pietra, sotto la quale si vuole che si trovi nascosto un tesoro. È una pietra a forma di tronco di cono, lunga metri 1,80 e, dicono i conta-dini, nessun uomo per quanto alto, stendendovisi sopra può toccarne le due estremità col suo corpo, perché la pietra si allunga quando taluno vi si corica.

vestimenti ed utensili


I vestimenti variano fra gli abitatori delle montagne e quelli del piano ed anche fra i montagnoli, quelli degli Abruzzesi vestono diversamente da quelli della provincia di Roma. I montanari Abruz-zesi portano un vestiario di lana pesante di color nero o turchino, quelli della nostra provincia ve-stono anch'essi panni di lana ma lavorati a quadri o a righe, mai neri o turchini chiari. Fra le donne, le nostre montagnole spiccano per maggior grazia, portano il busto attillato in modo da far risaltare le forme, mentre le abruzzesi sono più goffe e infagottate nei loro abiti. I campagnoli, abitatori del piano, usano abiti e calzature più fini dei montanari e la differenza spicca agli occhi anche dei meno pratici. In luogo di pesanti abiti di lana usano panni di fabbrica, acquistati a Roma, e non è raro che spendano i più benestanti, s'intende, dalle 60 alle 80 lire per un vestito cercando, oltre la buona qua-lità, anche l'eleganza della confezione. Così, quanto agi utensili, i campagnoli sono meglio provvi-sti, ciascuno ha il suo piatto e la posata, mentre i montagnoli usano mangiare in parecchi dentro un solo piatto detto “alla burina” molto largo agli orli e strettissimo alla base. Da questa loro usanza trae origine il proverbio: "Beata quella piattella che sette mani ci rastrella." I cucchiai e le forchette prima si usavano di legno: adesso in omaggio al progresso si usano di stagno. Per l'acqua si usano le cosiddette “bugalette” vasi di coccio molto ordinario di varia grandezza con becco e manico; i cam-pagnoli d ella pianura sono anche provvisti di una "copelletta" ossia bariletto contenente dai due ai quattro litri, ed usano portarlo con loro quando vanno a lavorare. I ciociari sono vestiti più misera-mente di tutti. Hanno ciocie in luogo di scarpe ed usano sempre panni leggeri da estate che acqui-stano dai rigattieri. Spesso, come ho detto altrove, si provvedono, per pochi soldi, di vecchie giubbe da soldato e l'indossano con tutti i distintivi dei gradi.

ANEDDOTI


La maggior parte degli aneddoti che ho sentito raccontare in campagna riguarda personale realmen-te esistite e rimaste celebri per la loro dabbenaggine, per la loro eccentricità o per qualche altro di-fetto. Altri, più che aneddoti, sono novelle di soggetto più o meno immaginario, ma in molte di esse non manca una certa originalità e un carattere satirico che può renderle interessanti a chi ami cono-scere i gusti e le abitudini dei nostri campagnoli.Un mercante aveva una figlia, la quale voleva bene al vergaro perché le forniva agnelli e ricotte, al fattore perché le mandava insalata ed asparagi, al massaro che provvedeva il latte e il burro. Il capoccia, che non le portava mai niente, non lo poteva vedere. Avvenne che un giorno vi fu in campagna un pranzo, al quale intervennero il mercante, la figlia e i suddetti caporali, meno il capoccia. Terminata la minestra tutti smisero di mangiare restan-do in attesa. - Papà non si mangia più , - domandò la signorina - Se non viene il capoccia non si può mangiare, replicò il padre. - E perché? ribatté la figlia - Perché è quegli che provvede il pane e tu vedi che a tavola non ce n'è. così anche il capoccia entrò un poco nelle grazie della giovane.
Un mercante, guercio, aveva un guardiacasale anche esso guercio, e per colpo di stranezza, anche il cavallo di cui il mercante si serviva era guercio. Quando il padrone andava a visitare la tenuta, il fat-tore diceva al guardiacasale: "Ah guercio! metti la sella al guercio, ché il guercio vò cavalcare." Questo è fatto storico.
In campagna sono indicati col nome di marri quei montagnoli che scendono l'inverno a lavorare nel-l'Agro romano, facendo una concorrenza spietata ai lavoratori delle nostre campagne. Nel 1839 una commissione di bifolchi si recò da Gregorio XVI per lagnarsi di questi marri. Ammazzateli, rispose il papa, che amante, come ognun sa, dei doni di Bacco, si trovava in un momento di buon umore. Ma Santità, replicarono quelli, sono cristiani ! Allora lasciateli campare, concluse il pontefice.
Un ebreo, Lazzaro Fiorentini, essendosi posto in capo di tentare la speculazione agraria, prese in af-fitto la tenuta Mattei sulla via Portuense, e la tenne dal 1861 al 1871. Egli è rimasto celebre nella nostra campagna e non meno celebre di lui fu il suo fattore Toto Battaglia. L'ebreo vantava le sue ricchezze, assicurava che aveva due sacchi pieni di doppie, e da principio spendeva realmente con molta larghezza. In seguito però i denari cominciarono a scemare ed allora si diede a fare economia a tutto spiano. Un giorno Toto lo avvertì che occorrevano i chiodi per le staccionate. - Croci di Dio! esclamò l'ebreo, già avete finito i chiodi? E Battaglia ironicamente: - Sor padrone, ce fanno l'acqua cotta li staccionatari! - E che debbo io passare loro i chiodi per l'acqua cotta? Mandateli subito via!
Un caporale di guitti aveva delle maniere molto persuasive nel fare i conti ai suoi dipendenti. Dice-va così: - Tre te ne dette a Roma, e due de lu callare che fa seio. - No, gnoru caporà, osservava timi-damente il meschinello, tre e du fa cinche. - Tre e du fa sejo, te diche ije. - . E dopo un po’ d'alterna-tiva fra il cinche e il sejo il caporale diceva: Chè! tre e du fa sejo, pe la maronna! la vide sta ciafroo-ca? - e alzava minaccioso un'enorme mazzarella per farla piombare sulla testa del guitto. Allora il povero guitto si affrettava a dire: - Gnor si, gnor si, gnoru caporà, va bono, tre e du fa sejo-
Nel 1897 l'Ecc.ma Casa Rospigliosi, proprietaria della tenuta di Maccarese, prese al suo servizio, come maestro di casa, un toscano, brav'uomo, ma molto freddo ed impacciato. Costui recavasi spes-so a Maccarese, ove, essendo stata notata la sua dabbenaggine, non gli furono risparmiate le satire e le burle. Un giorno egli annunziò in Maccarese che il Principe non era potuto venire perché "gli a-veva il mal di ‘apo ed anche un poino di sfruscio." Immaginate quale successo avessero queste pa-role fra quei campagnoli; d'altro non si parlava che di “mal di 'apo” e di sfruscio, ed al malcapitato maestro di casa rimase il soprannome di "mal di 'apo."
Un sagrestano beone serviva la messa a due preti. Uno soleva lasciare nell'ampollina un poco di vi-no, l'altro lo beveva tutto. Il sagrestano volendo vendicarsi di quest'ultimo, una mattina tolse il vino dall’ampolla e lo sostituì con l'aceto. Quando il prete, portato il calice alle labbra, s’accorse della burla, si rivolse indignato al sagrestano; ma non volendo far capire agli estranei ciò che era avvenu-to, disse in latino. Agrum est! E il sagrestano di rimando: Bevi se hai sete! In Sacristia faciemus contos. - Ma tu non mi ci pigli!
Il capostipite della famiglia Piscini, sebbene uomo danaroso, non aveva mai voluto smettere il vesti-to da pecoraio, col quale aveva esordito la sua carriera. Un giorno, essendosi recato a Roma, entrò vestito com'era da pecoraio in uno dei principali negozi da parrucchiere sul Corso, si sedette e attese che gli fosse rasa la barba. Il Figaro rimase un po’ contrariato per la visita di un simile cliente, tanto diverso da quelli che era solito servire. Cercò di allontanarlo con qualche pretesto; ma Piscini, che non era uomo da lasciarsi menare pel naso, tenne duro, cosicché convenne servirlo. Terminata l'ope-razione, Piscini si alza, porge al barbiere uno zecchino d'oro e s’incammina per uscire. Ehi, Ehi - gli grida il barbiere – prendete il resto. Ma l'altro con aria superiore: Piscini non prende resto.
Il mercante di campagna Senni (che i campagnoli chiamavano Segni), nonno degli attuali conti Sen-si, un giorno nel fare un pagamento ad un caporale di carbonai, gli diede un rotolo di monete d'oro, in cambio di uno di rame. Il carbonaio, avvistosi qualche ora dopo dell'errore, tornò da Senni per re-stituirgli il danaro e come lo vide gli disse "Sor padrone vi siete sbagliato a pagami". Senni creden-do l'errore a suo vantaggio, pronto rispose: "Troppo tardi! Io son Segni e segno". - "E io so carbona-ro e tegno (tingo) " rispose l'altro che capì l'equivoco.
Quando nelle nostre campagne infieriva la malaria un medico di Fiumicino si recava spesso nella vicina Ostia a visitarvi gl'infermi. Un bel giorno dimenticò di fermarsi a certe capanne di ciociari stabiliti ad Ostia, e, giunto presso il cancello di S. Sebastiano si accorse che un ciociaro gli correva dietro affannosamente. “Gnoro dottò!” gridava il ciociaro “Che vuoi?” “Tenghe fraterna co la fre-ve”, “Quanto tempo è che ha la febbre?” “Songhene dù mise” (due mesi) “Poveretto lo compatisco, ma io sono tre anni che la porto e ancora non posso liberarmene e tu ti lamenti per due mesi?” E spronò il cavallo.
Un campagnolo che frequentava la biblioteca Vittorio Emanuele in Roma, si vide un giorno fatto segno alle beffe mal dissimulate di due studentelli secchi come due scheletri. “Che cosa studiate di bello?” domandarono quelli un giorno con ironia. Ed il campagnolo; “Studio cretineria, astruseria ed anatomia vivente” e accennò alle loro mani.
Pio VI, avendo intrapreso la bonifica delle paludi pontine, volle un giorno visitare i lavori. Mentre percorreva in carrozza la via Appia, s’incontrò in un frate francescano a cavallo. Il papa si meravi-gliò che un figlio del poverello di Assisi si permettesse il lusso di andare a cavallo e con aria severa gli disse. "Franciscus non equitabat." Ma il francescano furbo gli rispose: “Et Petrus non scarrozza-bat”.
È usanza in campagna che, in tempo di mietitura il mercante di campagna provveda il pranzo ai mietitori. Uno di questi mercanti, per spirito di economia, non dava ai suoi mietitori altri trattamen-to che di erbaggi, specialmente zucche, lattuga, cipolle ecc. Mai un po’ di carne, mai un pezzo di formaggio, od altra cosa un po’ sostanziosa. La cipolla rinfresca - diceva ai mietitori il mercante nel distribuir loro la pitagorica razione - la zucca rinfresca, la lattuga rinfresca. Un bel giorno, di pieno giugno, un mietitore si presenta sul capo tutto ravvolto in un pesante mantello. Ehi! – gli domanda meravigliato il mercante, ti senti la febbre? No – risponde l’altro ma mangiando sempre roba rinfre-scante mi è venuto un freddo da tremare! Il mercante capì il latino e provvide perché il pasto dei suoi dipendenti fosse migliorato.
Terminerò con due aneddoti che si riferiscono ad un certo Peppaccio, fattore d’una tenuta prossima a Roma. Costui aveva preso pei lavori della tenuta, dove era anche una vigna, alcuni ciociari, i quali ripetutamente la pregarono di preparar loro un po’ di fagioli cotti, come usano fare qualche volta i vignaroli coi loro dipendenti. Peppaccio non ne voleva sapere; finalmente un giorno promise ai cio-ciari che li avrebbe accontentati. I ciociari recandosi al lavoro, solevano togliersi le calzature (cioce) che poi riprendevano la sera, quando tornavano alle loro capanne. Ora che fa Peppaccio? Aspetta che i ciociari si siano scalzati sceglie due o tre tra le migliori cioce, le taglia a pezzetti e le mette a bollire insieme ai fagioli. Giunta l’ora del pasto chiama a raccolta i ciociari: “A ragazzi – dice loro – i fagioli ve l’ho fatti, e vi ci ho messo pure le cotiche. Sentirete che sciccheria!” I ciociari comincia-no a mangiare i fagioli e a rosicchiare le cotiche e siccome non c’era verso di poterle masticare, uno diceva all'altro: "Chembà, pacciste, quante songhene toste ste codene!” – “Scine, scine parene la pella de gli bove de gli chembare 'Ncicche!" "Pozz'esse accise Peppacce e gli faciolo (Compare, per Dio, quanto sono dure queste cotiche! - Si, si, paiono la pelle dei buoi del compare Cecco!- Possa andar in malora Peppaccio e i fagioli!) .La sera poi terminato il lavoro, vanno a riprendere le ciocie, ma cerca di qua, cerca di là, le ciocie non sono più in numero. Si rivolgono allora piagnucolando a Peppaccio, ben immaginando che questi, da quel furbo matricolato ch’era, doveva aver giocato loro un brutto tiro. Peppaccio, che in tutto questo tempo s'era tenuto in disparte, divertendosi un modo, intervenne infine con aria autorevole: Ah, ve possino ammazza, li facioli l'avete voluti, e le codiche non ce le volevio mette! Dopo quel fatto gli rimase il soprannome di Peppaccio delle codiche. U-n'altra volta avvenne che due contrabbandieri, fuggendo probabilmente le guardie daziarie, bussaro-no al casale di Peppaccio, e trovati colà due ragazzi suoi nepoti, li pregarono ai poter lasciare per qual che ora due sacchi. I ragazzi annuirono. Non appena però usciti i contrabbandieri, uno dei ra-gazzi, mosso dalla curiosità, cominciò a scucire un sacco e visto che conteneva prosciutti freschi, ne tirò fuori uno. Non andò molto che buona parte del prosciutto era tagliato a pezzi, posto sulla grati-cola e digerito dai due compagni. Poco dopo eccoti Peppaccio, vede il fumo, sente l’odore e ne do-manda ai ragazzi la spiegazione. Questi dopo qualche reticenza, raccontano quanto era avvenuto ed allora Peppaccio: Va bè: pe’ sta volta ve perdono, ma andate. subito via e qualunque cosa sentite nun venite. Di li a qualche tempo si presentano i contrabbandieri, e chiedono i sacchi, che già Pep-paccio aveva trasportati in luogo sicuro. Peppaccio finge di cascar dalle nuvole, assicura di non sa-perne niente né di ragazzi né di sacchi, e poiché quelli insistono, alzando la voce, dà di piglio ad un randello. Non ebbe però bisogno di servirsene, perché i contrabbandieri, viste le brutte, se la dettero a gambe. Ce stetti bene tre anni co quelli presciutti, diceva Peppaccio, quando raccontava l’avventura.

LE OSTERIE

Nel classico suolo della campagna romana ove tutto parla d’antiche memorie non è meraviglia che anche le osterie, o almeno alcune di esse, abbiano tale importanza da meritare un cenno illustrativo.
Antichissima è l’osteria di Grotta Rossa, fuori porta del Popolo, sulla Via Flaminia, non lungi da Roma. Esisteva anche ai tempi di Cicerone, vi passò Marco Antonio e nei suoi pressi accampò Vespasiano quando mosse contro Vitellio. Quest’osteria fu testimone delle imprese dei Fabi, della battaglia fra Costantino e Massenzio, del concordato concluso nel 1111 da Pasquale Il con Enrico V sulla questione delle investiture, e finalmente della ritirata di Garibaldi nel 1849.
Alle falde dello storico Monte Sacro è l’osteria dei Cacciatori ove Simone Bolivar fece il suo brindisi-giuramento.
Altre osterie degne di menzione pei loro ricordi storici o perché più frequentemente nominate sono: quella detta dei Francesi presso Marino,che ricorda la vittoria di Alberico da Barbiano sui francesi nel 1379; per la quale vittoria Alberico si ebbe da Urbano VI la bandiera colla scritta: Italia a barbaris liberata.
L’osteria del Grillo che trae nome dalla famiglia di questo cognome, l’osteria di Tor di mezza via tra Roma e Frascati, quelle di Finocchio, di Torrenuova, Puttanella, Malagrotta ecc.
Altra osteria antichissima è quella della Storta sulla Via Cassia a nove miglia da Roma in un punto strategico di primaria importanza. Nel IV secolo era già osteria postale ed infatti sotto l’impero di Graziano, Valentiniano e Teodosio il prefetto del pretorio, Valerio Antidio, vi fece costruire uno stabulum per la posta. Ivi pure si fermò S. Ignazio di Lojola quando venne a Roma ed ivi raccontasi che avesse una visione in cui Cristo gli promise la sua assistenza nell’eterna città. Questo fatto fornì al Pozzi il tema d’un quadro che trovasi nella chiesa di S. Ignazio a Roma insieme con altri dipinti dello stesso autore. Tutte queste osterie sono frequentate in massima parte da campagnoli, cacciatori e velocipedisti, però nella buona stagione spesso vi si danno convegno allegre comitive di cittadini.

CASALI ED ANTICHITA’

Magliana La tenuta col relativo casale giace sulla destra del Tevere a poche miglia da Roma e vuolsi che il suo nome derivi dalla Gens Man ha che vi avrebbe avuto in antico dei possessi. L’attuale casale è un avanzo del grandioso palazzo fattovi fabbricare da Sisto IV, il papa celebre per la parte avuta nella congiura dei razzi. In tale palazzo, abbellito da Innocenzo VIII e da Giulio Il dimorano anche Leone X e Sisto V. Si narra che per la Magliana passassero gli sgherri che avevano rapito Ginevra di Monreale per ordine di Cesare Borgia di felice memoria. Nell’interno del casale si veggono pitture della scuola del Perugino
Pantano E’ situato tra la Via Prenestina e la Casilina e Labicana a 18 chilometri d a Roma. Sembra accertato che la valle di Pantano corrisponda all’antico lacus Regillus ove i Romani condotti da Postumio sconfissero i Latini collegati per ripristinare il regno dei Tarquini. Altri archeologi hanno creduto che il lacus Regillus corrispondesse all’attuale lago di Castiglione di cui parleremo in appresso.
Torrenova Columella la dice: pestilentis simul exihis agri. Giulio Capitolino la descrive invece come una superba villa dalla quale furono trasportate le colonne serpentine nella basilica Lateranense. E’ a nove chilometri da Roma sulla Via Casilina, dov’era accampata la tribù rustica Papiria, e dove Attilio Regolo possedeva jugeri di terreno, ed anticamente era una tenuta della famiglia Cenci. L’attuale casale colla relativa chiesa fu fatto fabbricare da Clemente VIII nel 1593 su disegni del Fontana; è recinto di mura merlate e da una torre a lato nord; nell’interno contiene stanze alte e spaziose con ampi finestroni. In complesso è una delle più belle e comode tenute, fornita anche di una ricca vena di acqua potabile. D. Paolo Borghese, attuale proprietario, avrebbe desiderato di farne una tenuta modello con alberi fruttiferi, prati artificiali, giardini, vigneti e case coloniche; ma le vicende di casa Borghese hanno travolto questi splendidi progetti.
Castel Giubileo Si vuole che questo nome derivi dall’acquisto della tenuta fatto da papa Bonifacio VIII coi danari che ricevé dalla cristianità durante il famoso giubileo del 1300. Nel luogo ov’è l’attuale casale a metà diroccato, sorgeva in antico Fidenae, città etrusca, nemica di Roma, epperciò distrutta da Emilio Mamerco che ne vendé i cittadini all’incanto. Fu poi ricostruita sotto Tiberio e nuovamente abbattuta dai Longobardi; oggi non ne rimane traccia. Il casale e la tenuta sono sulla Via Salaria a poca distanza da Roma.
Castiglione Situato sulla Via Prenestina a 17 chilometri da Roma corrisponde all’antica Gabii, città greca, secondo Strabone, dove furono a scuola Remo e Romolo, come affermano Plutarco e Dionigi D’Àlicamasso, rinomata pei suoi bagni e per il tempio di Giunone Gabiua che restava a sinistra della via di fronte l’attuale riserva detta delle Cese. Dicesi che Silla dividesse i campi dei Gabini fra i suoi soldati, ad ogni modo Gabii non fu da lui distrutta poiché la troviamo menzionata da Orazio. Nel secolo VIII doveva aver cessato di esistere come città per divenire una tenuta che in quel momento fu presa in affitto da Cristoforo Sismondi, romano. Nel secolo XIII fu eretta la torre che ancora esiste ed intorno ad essa sorse un villaggio detto Castrum Castellonis, dove nel 1353 sì attendò Cola di Rienzo. La valle sottostante al villaggio era prima un lago che fu prosciugato nel 1837 dalla famiglia Borghese. Ora il letto del lago è un bel campo di granturco coltivato da contadini d’Arsoli, i quali abitano in alcune misere capanne costruite ivi presso e che nell’estate tornano ai monti nativi. Fra loro si trovano donne di non comune bellezza come Alessandrina Nardoni ed altre.
Capocotta Questa tenuta giace a 26 chilometri da Roma fuori la porta San Paolo non lungi dal mare. I moderni archeologi pongono qui la sede dell’antica Laurentum mentre prima si credeva che corrispondesse all’attuale Tor Paterno. E’ superfluo aggiungere che le memorie di Laurentum risalgono all’età più antica. La leggenda racconta che prima vi regnò Fauno poi Latino e che sulla sua spiaggia approdò Enea il quale da Latino ebbe in dono il monte ove fondò Lavinium, attualmente Pratica di mare. Ostia L’antica Ostia di cui rimangono le grandiose rovine presso l’attuale villaggio di Ostia fu il principale porto di Roma, situato presso la foce del Tevere. Le incursioni dei barbari e dei Saraceni e gli interramenti alluvionali danneggiarono sempre più la città, la quale perdé ogni importanza commerciale quando Paolo V fece aprire il nuovo canale fra S.Ippolito e Porto vecchio, L’attuale Ostia è un villaggio a circa 6 chilometri dal mare; la sua cosa più notevole è il magnifico castello fatto costruire dal cardinale Giuliano della Rovere, che fu poi Giulio Il, su disegni del Sangallo. Esso contiene un interessante museo, la chiesa e il palazzo episcopale, essendo Ostia una delle più antiche diocesi con titolo cardinalizio; anche questo palazzo contiene sculture ed iscrizioni antiche.
Lunghezza Il vasto e bel casale consta di una corte recinta di mura merlate e di un palazzo che fu già dimora dei Cardinali Pietro e Giacomo Colonna. Rimane a circa 15 chilometri da Roma sull’Aniene che quasi ne lambisce le mura ad occidente, e da esso si gode un magnifico panorama che comprende i monti Laziali, i Prenestini, i Cornicolani, i Sabbatini, col gruppo del Soratte e quelle del Monte Gennaro.
Porto Trae nome dal porto fattovi costruire da Claudio. Essendosi questo ostruito per gli interramenti ed essendo divenuto insufficiente Trajano ne fece costruire uno più ampio che corrisponde all’attuale lago Trajano, mentre il porto antico di Claudio corrisponde alla cosiddetta Traianella. A Trajano si debbono pure l’arco detto di Belladonna ed i magazzini del porto di cui si vedono le vestigia (i cosiddetti casalini) che attestano l’importanza commerciale che una volta aveva quella località. Altre vicende di questa località sono le seguenti: Gregorio IV, ai tempi del quale era già spopolata la fece mantellare per non farvi annidare i corsari ma Leone IV la rifabbricò installandovi una colonia di Corsi fuggiaschi e dando a questi terre, attrezzi e bestiame senza alcun peso da pagare “Con simili vantaggiose condizioni bisogna animare l’agricoltura” conclude lo storico. Altre cose notevoli di Porto sono il palazzo cardinalizio che nel cortile contiene frammenti di antiche sculture e il palazzo Torlonia fatto edificare dal munifico principe D.Alessandro Torlonia su disegni del Carnevali.
Maccarese Questa tenuta situata a circa 23 chilometri da Roma presso la linea ferroviaria Roma Pisa Genova è una delle più vaste ed anche delle più insalubri della campagna romana. Dai prati acquitrinosi, dai melmosi pantani popolati di bufale e dagli stagni emanano esalazioni pestilenziali che fanno di Maccarese il vero regno della malaria. Fino al 30 settembre del 1803 la tenne in affitto il celebre mercante B. Canori che aveva ben 18 tenute in affitto con una superficie di 6664 rubbia. Il primo ottobre di quell’anno cominciò a coltivarla il principe affittandone a intervalli qualche porzione fino al 1894, dalla quale epoca è stata sempre tutta gestita direttamente dalla famiglia principesca. All’abbondanza delle acque stagnanti fa degno riscontro la scarsezza dell’acqua potabile, poi ch4n tutta Maccarese (circa 2800 rubbia di terreno) esistono tre soli fontanili, uno dei quali, quello del casale, raccoglie le acque reflue di altro fontanile di una tenuta soprastante. Fino a pochi anni fa, quando ancora non si praticava la cura preventiva contro le febbri, malariche, queste dominavano a Maccarese; pochi di quelli che vi hanno dimorato hanno pretesto sfuggirle.Ora la febbre, anche a Maccarese non è più tanto temibile e presto, speriamo, non se ne parlerà più affatto poiché la tenuta di Maccarese è stata recentemente dichiarata zona di bonifica obbligatoria. Il casale di Maccarese possiede ricordi storici di non poca importanza, anzi per questo lato pochi casali possono competere con Maccarese. Tali ricordi consistono nelle spoglie dei Turchi conquistate dagli abitanti di Maccarese e che si trovano in una nicchia sulla prima rampa della scala interna. Sono 18 lance di forma quadrangolare, lunghe dai 18 ai 20 centimetri e due bandiere lacere. Accanto a queste spoglie sono due ceffi dipinti sul legno e di fronte è un’iscrizione la quale narra che il 24 maggio 1748 ventitré uomini della tenuta catturarono una galeotta turca con 26 uomini, di cui son riportati i nomi, come pure son descritte le ami di cui. erano muniti, le bandiere, ecc. vi è anche la relazione che di tale cattura fu fatta dal Principe Don Camillo Rospigliosi al papa Benedetto XIV e la risposta di questo papa, datata da Castel Gandolfo, che assegna cento scudi di regalia ai Maccaresanti. Le vaste sale interne contengono una quantità di bei quadri, quasi tutti di soggetto campestre; quella da pranzo è adorna dei ritratti di quattro papi, Clemente XII, Benedetto XIII, Pio VI e Clemente XIII. Presso Maccarese, in vicinanza dell’attuale torre, sul mare, sorgeva una volta Fregenae, più verso Roma erano le saline dei Vejenti, nella località che oggi si chiama Campo Salino, ed a poca distanza si stendeva la foresta Mesia (Quercette e Bottegone). Altra specialità di Maccarese sono le bufale, le cui mandre semiselvagge possono vedersi qui e nelle paludi pontine, mentre scrittori e pittori spesso e volentieri le fìccano in tutte le località dell’Agro romano, per dare più varietà al paesaggio. Salone La costruzione di questo casale devesi al cardinale Domenico Trivulzio e rimonta al 1525. Il Cardinale ebbe intenzione di fare colà, e f orse anche ve la fece, una grandiosa villa: certo egli chiamò a Salone il pittore Daniele da Volterra che vi dipinse la favola di Fetonte (ora distrutta) ed altri affreschi di cui restano quattro piccoli saggi alquanto malandati. Sono queste le prime pitture fatte da Daniele da Volterra dopo la sua venuta in Roma. Morto poi il Cardinale nel 1548 il casale fu a poco a poco abbandonato e col tempo si ridusse nella condizione attuale di deperimento e di squallore. Poco lungi sono le sorgenti dell’Acqua Vergine, così nominata, perché, secondo una leggenda, una giovinetta vergine l’avrebbe insegnata ad alcuni soldati assetati. I serbatoi e gli acquedotti di quest’acqua sono stati riparati in diverse epoche dall’imperatore Claudio e dai papi Nicola V, Sisto IV, Pio V, Clemente XII o Benedetto XIV.
S. Marinella Questa località divenuta da pochi anni un centro di villeggiatura estiva e di bagni marini, ha anch’essa una storia. Neopyrgos, sta scritto sulla torre rotonda colà esistente e tale dovette essere il suo antico nome all’epoca romana. Se ne trova memoria nel 1483 quando Sisto IV concesse quella cappellania ad un certo Rosa. Nel secolo XVI appartenne, con altre tenute, all’Ospedale di S. Spirito. Poi passò ai Barberini e da questi agli Odescalchi. A questa tenuta si collega una tragica storia. Maffio Savelli fu ivi ucciso da tale Renzi cui il Savelli aveva tentato di.....accarezzare la moglie Giovanna. Il Renzi fuggì e la moglie condannata a morte, ebbe salva la vita per intercessione della Duchessa di Parma presso Paolo III.
Romavecchia Ivi sorgeva il pagolanonio ed ancora vi rimangono numerosi ruderi di antichi edifizi. Comprendeva cinque grandi appezzamenti: Arco travertino Statuario Capo di Bove Torre spaccata e Sette Basse. Fu acquistata da Giovanni Torlonia dalla confraternita di Sancta Sanctorum nel 1799 per scudi 93.775. In tale occasione Pio VII creò il marchesato di Romavecchia.
Grottaperfetta Appartenne nei secoli passati al monastero dei SS. Bonifacio ed Alessio e comprendeva giardini, vigne ed alberati vineas cum hortis et arboribus in hcrtis perfectis extra portam Appiam. Ora appartiene all’ing. Occibelli che, bonificandola, l’ha restituita all’antico splendore.
Casale di S. Antonio Sta presso Mentana e fino al 1500 si chiamò Saccoccia dal suo proprietario Curzio Saccoccia dotaro Capitolino. Poi passò a Borghese fino a che il cardinale Scipione non lo cedé insieme con altri fondi, ai monaci di S. Antonio, da cui prese il nome.
Bottaccia Tenuta piena di ruderi dove di conseguenza si sono rinvenute ossa, marmi, teschi, iscrizioni ecc. Ab antico apparteneva ad un tale Sanguinius triumviro monetale. Il principe Panfili vi istituì un piccolo ospedale ed un ambulanza pel trasporto dei malati poveri a Roma. Utilissima opera che purtroppo non ha trovato imitatori, mentre ce ne sarebbe tanto bisogno.
Morolo E’ la prima tenuta menzionata nel catasto fatto eseguire da Pio VI e si crede con fondamento situata proprio nel luogo dov’era la famosa villa di Pompeo nell’antico territorio Vigente Verso il confine dè Capenati.
Procoio vecchio Questo antico feudo, con annesso Castello di Riano, ha subito molte e varie vicende finché al tempo di Clemente VII fu acquistato dal cardinale Taddeo dè Gaddi, e da certo Aloisio, per la somma di 29.000 ducati d’oro. L’atto lo redasse il cardinale Ascanio Sforza nel novembre del 1551. In tempi non lontani da noi vi esisteva ancora il porto del Tivoleto per lo smaltimento dei prodotti delle vaste macchie che si trovano in quelle vicinanze.
Altri casali meno importanti, ma non privi di interesse sono i casali delle seguenti tenute:
Tor di Quinto Si vuole che il suo nome derivi da Quinzio Cincinnato che aveva il suo campicello di sette jugeri al di là del Tevere. Quivi egli avrebbe guidato l’aratro e si sarebbe riposato dalle cure del consolato.
Tormarancia E’ una piccola tenuta che va ricordata perchè ivi l’imperatore Comodo avrebbe dimorato ed esercitato l’agricoltura.
Marcigliana In questa tenuta sorgeva anticamente la città di Crustumium, distrutta da Tarquinio Prisco. Ivi i romani furono battuti dai Galli, che poi entrarono in Roma, da dove li cacciò Camillo.
Molara In questa località dicesi che esistesse un bosco nominato Roboraria, dove si custodivano le fiere per gli spettacoli del circo.
Passerano Sta tra Tivoli e Gallicano ove una volta era la città di Scaptia
Castel di Guido Trae il nome dal marito della famosa Marozia.
Marco Simone Anticamente questo casale fu detto Castrum Sancti Honesti e cambiò nome quando, nel 1457, fu acquistato dalla famiglia Tebaldi
Castell’Arcione Il nome deriva dalla famiglia Arcione antichissima proprietaria di queste terrene nel secolo IX. Dopo una prima distruzione il casale fu edificato nel 1296 dalla famiglia Capocci: in seguito fu abbattuto dai Tiburtini e poi ricostrutto. In questa tenuta fu sepolta la martire S. Sinforosa, in cui onore è stata recentemente edificata una chiesa presso la vicina stazione delle acque Albule.
Castel Romano Il casale, molto imponente, trovasi in località assai amena, fra boschi ed ubertose vallate. Fu edificato dal Cardinale Alberoni, come rilevasi dalla relativa iscrizione:
Julius Card. Alberoni Anno MCCCXXXI. La prima stanza sull’angolo sud-est fu abitata dal Cardinale.


PROVERBI DETTI ED APOLOGHI


Di proverbi ne corre un’infinità sulle bocche dei nostri campagnoli: perciò ho procurato di scegliere quelli che sono meno noti e che, per quanto io sappia, non si trovano in altre raccolte del genere.
Naturalmente li riporto così come li ho intesi senza correggere gli errori propri del dialetto.

PROVERBI SULLE STAGIONI E SUL TEMPO


Se Pasqua non vi è Primavera non è.
Viene prima maggio che gennaio
Buono maggio quando va fresco, ma non tutto
Quando goccia il cappello, scarta monello;
Quando corre l’acqua pel solco scarta bifolco. S.Lucia (13 dicembre) acqua e neve per la via. Sole a specchietti, acqua a catinetti
Se l’acqua m’arriccasse (arricchisse) e il sole mi spiantasse sempre sole Dio mandasse. Nebbia per la valle, acqua per le spalle Tramontana di buon cuore o tre o sei o nove (giorni di durata).
Se rannuvola sopra la brina, acqua sopra la schina
Venga la febbre a chi febbraio mi dice; son primavera per i buoni paesi (cioè per le tenute calde e fertili).
Febbraio, notte e giorno a paro.
Il venerdì non è come gli altri dì.
Arco della sera, buon tempo mena, arco della dimane empie le fontane; arco della mattina empie la piscina.(con riferimento all’arcobaleno)
Il sole a Roma e l’acqua in montagna.
Acqua e gelo non rimasero mai in cielo.
Quando monte Cavo si mette il cappello, vendi le capre e fatti il mantelli; quando Monte Cavo si mette le brache vendi il mantelli e fatti le crape (Il cappello è la nebbia alta, le brache la nebbia bassa alle falde del monte).
Marzo asciutto ma non tutto.
Se tira scirocco e non piove è un gran porco Marzo, terra ti lascio (così dice il grano che germoglia).
Dice il bue alla pecora: pecora che ti venga la vescicola la notte sia buon tempo e il giorno piova. Risponde la pecora: Bove che ti venga lo tormento la notte piova e il giorno buon tempo.
Se d’inverno tira levante e non piove è un gran birbante.
La sera la marina, la montagna la mattina (cioè se la marina di sera è rannuvolata la mattina appresso pioverà).
Se il fieno non si bagna, la polenta non si magna.
Ponente d’inverno, tempo d’inferno
Il tempo buono si aspetta in campagna (cioè lavorando)
Quando lampa a Maccarese, piglia la zappa e va al paese (perché pioverà).
Tempo rimesso di notte vale due pere cotte (non val nulla).
Quando il tempo arrifila di Giove (si rimette di giovedì) non è sabato che ripiove
Cerchi vicino (alla luna) e acqua lontana, e viceversa.

PROVERBI SUI LAVORI CAMPESTRI, SUL BESTIAME, SUI RACCOLTI ecc.


Più pende e più frutto rende
Bove e cavalla caricali a spalla, asino e mulo caricali a … culo  
Bove fiacco piglialo senza patto
Ad ogni tristo vangatore ogni vanga gli è peggiore
Mettimi sopra un prato e zappami appena nato (il granturco)
Aratro, poco legno e ben ferrato
L’aquilano alza forte e mena piano
Canta il merlo sulla spina nera, provvediti padron che è primavera.
Terranera di gennaio empie il granaio
Bove fiacco, passata corta
O che terra o che aratro o che bifolco: poveri bovi e sfortunato solco
Bove da carrozza, stretto che strozza, bove d’aratro, stretto serrato
Butta in terra e spera in Dio (dicesi per ironia di chi dopo seminato non si cura di fare altri lavori).
Alla fin della stagione para e patta col padrone.
Chi s’innamora della carne (del bestiame) oggi ride e domani piange
O ara, o fuori dell’ara (gioca sul doppio senso della parola ara che sta anche per aia)
Il butirro paga l’erba
Terra fa grano e grano fa bovi (vuol ricordare che i buoi sono quelli che fanno il buon raccolto nel senso che più l’aratura è profonda più il raccolto è copioso).
Carica poco e torna spesso
Il grano come giace e la donna come piace.
Grano coleo (carico) padron diritto: o grano diritto e padron ricco
Grano fitto padron diritto o grano lento e padron contento
Quando il grano è futo (folto) tutto è perduto
Fa più con nove giorni e nove notti (il grano) che non con nove mesi morti
Il zappetto ha la punta d’argento ne taglia una e ne vengono cento (di piante di grano)
Quando piove per l’Ascensione ogni spiga perde un cantone.
Bisogna raccomandarsi a S.Benedetto ché se non piglia di verde piglia di secco.

PROVERBI DI VARIO GENERE


La lumaca di maggio lasciala pel suo viaggio
Adagio barbiere ché l’acqua scotta
Lo so io dove batte (pratica) il lepre
Tu non sai quanto costa la carne di capra
Chi per marito il campagnolo piglia non è zitella e manco (nemmeno) maritata
Una ne pensa il gatto e l’altra il topo e di qui a bel veder ci corre poco
Il lavoro della festa entra dalla porta ed esce dalla finestra
Bella pampina e poca uva
Arri arri, finché arrivò alla mola
Si sta con Gualdi (cioè alle dipendenze di Gualdi) la mattina presto e la sera tardi
Vai a vento (hai fame) come li staccionatari di Giorgi. (riferimento a padroni dell’epoca non proprio magnanimi)
Oggi lungo un anno domani senza comando (così si dice il sabato)
Gente colla catana, alla lontana
Quando la campana suona a festa è segno che la domenica s’ accosta
Chi incoccia diventa capoccia (chi la dura la vince)
Speroni miei e cavallo d’altri
Bastone corto (pungolo corto) e cavallo corridore
A passo cattivo, compagno avanti.
Natale col sole e Pasqua col tizzone
Pallavicina (una tenuta di questo nome) passa e cammina
Pantano (id.) passaci lontano
Torrenova (id.) facci la prova
Scoran (id) scora, S.Marta accora, Giraldi non andar più avanti, ponte Storto sei morto
Sei d’Anagni, poco ne magni (non sei pratico)
Bisogna nascerci cavalli corridori
Dormi o Paolo e conta le ore
Chi unge il collo ai buoi e non s’unge le scarpe o è spia o non sa l’arte
Dì la verità e dì male di tuo padre
Ho capito al brodo che è pecora
Oggi non si cacciano capre (non si lavora)
Zero via zero zara, ci vediamo dopo l’ara
L’asino di montagna caccia quello di maremma.
La verità è una tazza di veleno
La pelle a maremma, l’onore a montagna
Ecco che è notte ed il padron sospira dice che è stata corta la giornata
A Maccarese ci si sta per le spese (i danari si spendon tutti in medicinali)
Salti chi può.
Tre anni (dura) una fratta, tre fratte un cane, tre cani un cavallo tre cavalli un uomo
Quando canta il gallo a satollo la sera è sereno e la mattina mollo; quando canta il gallo la sera, se è nuvolo si rasserena.
Tre uomini un corvo: tre corvi un serpente: tre serpenti una quercia
Tre cose gabbano il villano: la credenza, il buon mercato e il piover piano
Tre sono i potenti: il papa, il re e chi non ha niente.
Dio eterno, come faremo questo inverno ? La somara è morta, la legna chi ce la porta ?
Alla tavola mia non voglio impicci né funghi né lumache né tartughe o ricci.
Viene un pane come una ciambella (dicesi di cosa mal riuscita)
L’acqua cotta, pane sprega e trippa (pancia) abbotta (gonfia)
Santa Lucia, passa da casa mia, con un mazzo di finocchi, puliscimi questi occhi Vita brava vita breve
Piano e costa è tutta roba nostra (lo dice chi non ha nulla).
Beata quella porta che ci esce la femmina morta.
A campo Morto chi ha ragione ha torto. A Conca si fa la legge con la ronca
Disse la volpe ai suoi amati figli: quando staremo a tordi e quando a grilli
Una legna non fa fuoco: due ne fanno paco; tre o quattro lo faria , ma ci vuole un po' più di compagnia
Rabbia di cacciator quando non coglie fame di bifolchetto quando scioglie
La natura fa da sé
Pigrizia vuoi il brodo ? Si  Prendi il piatto  Accidenti al brodo e a chi l’ha fatto
Hai trovato Cristo a mietere e S.Pietro a raccogliere le gregne
Cani e butteri in campagna (ossia devono stare fuori di casa)
Chi prima nasce prima pasce
Quando gira il moscone o lettera o padrone (o giunge una lettera o il padrone viene in tenuta; I campagnoli prestano molta fede a questo proverbio).
Un buon padrone fa un buon capo (d’azienda) ma un buon capo non può fare un buon padrone (che peccato !)
Vale più una radica d’ontano che S.Ambrogio di Milano
Basta: col maneggiar la pasta il pan si affina
La sai lunga, ma non la sai raccontare
S.Antonio, salva il basto, che l’asino me lo rifaccio
Sono i prosperi (fosfori) del compare, che si accendono quando gli pare
Un’ora dorme il soldato, due l’innamorato, tre un sergente, quattro un sapiente, cinque un viaggiante, sei uno studente, sette ne dorme un corpo, otto un porco, nove un giudìo, dieci ne dormo io
Chi vuol tener pulita la borsetta tenga orologio, chitarra e schioppetta (fenile) Male chi vanga, peggio chi sega, male chi miete, peggio chi.....lega
Chi va alla merca e non resta mercato o è vile o non c’è stato
Pane e vino venga; il padrone si mantenga; la notte sia buon tempo e il giorno piova
Non filar con chi ha filato; non andar a opera con chi c’è stato
Dio ti scampi da un povero arricchito e da un ricco impoverito
A sta tenuta c’è una brutta usanza; già è ora di merenda e non si pranza
I° la gobba, II° il bastone; III° gli occhiali; IV° il pallone
Pelo rosso e pecora pezzata appena nati tagliagli la capa
Morti grossi vuole il curato Allegria vuole il soldato Cause grosse l’avvocato.
Capò, Capò, la peggio ! Questo proverbio ha la seguente origine. Un capoccia addetto alla tenuta di Campomorto non era mai contento della sua cavalcatura. Il massaro allora, che era certo Antonio Mariani, gli disse di scegliersi fra tutti i cavalli quello che più gli piaceva; ma il capoccia, poco pratico, dopo molte esitazioni scelse proprio il peggiore; il massaro gli disse allora: Capo, (capoccia) capo, la peggio (questo detto è passato in proverbio e spessissimo si ripete in vario senso).

APOLOGHI


·           Una vecchia, giunta un anno al mese di marzo, si rallegrava di aver superato l’inverno senza malanni. Marzo, che, come ognun sa, è un mese lunatico e stravagante per eccellenza, cominciò allora a mandar giù neve e freddo a più non posso, cosicché la vecchia ammalò e morì.
·           Un giorno marzo incontra un merlo che cantando saltellava sui rami di un albero “Sei molto allegro” gli disse marzo “Sono allegro perché è primavera” rispose il merlo. Non lo avesse mai detto! Di lì a poco comincia a tuonare, a piovere ed a far freddo in modo tale che il merlo, tutto arruffato, dové cercar rifugio dentro una fitta siepe. Quando marzo lo vide ridotto in uno stato così compassionevole, gli domandò che gli fosse successo. “E’ morto mio padre” rispose il merlo per non aggiungere al danno le beffe
·           Un granchio scommise con una volpe che sarebbe arrivato prima di lei sulla cima d’un colle. La volpe sicura del fatto suo, accettò di buon grado la scommessa e cominciò a salire di corsa. Il granchio però senza che la volpe se ne avvedesse, le si era intanto afferrato alla coda. Giunta la volpe in cima al colle si volse indietro per vedere ove fosse rimasto l’avversario; questi allora lasciò la coda e gridò: “Sono arrivato prima io”! Il che dimostra che non sempre la volpe è il più furbo degli animali.

SUPERSTIZIONI


Ciò che ora esporrò non è che un saggio delle superstizioni che tuttora sussistono nelle nostre campagne, a dispetto della civiltà, del progresso e di tante altre belle cose. Se dovessi raccoglierle tutte, mi occorrerebbe un volume non riuscirei che a tediare il lettore.
Quelle però che riferirà in appresso basteranno per dare un’idea dell’ignoranza e della credulità di questa gente che vive a pochi chilometri da Roma in pieno secolo XX.

CURA DELLE MALATTIE


Le doglie alle gambe possono guarirsi coi lombrichi fritti nell’olio.
I porri scompaiono, curandoli con borra di basto o colla schiuma dei fossi in piena. Occorre però che la borra o la schiuma siano trovate per caso; a cercarla appositamente perderebbero ogni efficacia.
Per guarire dalle emorroidi si porta in tasca una certa radice che si trova, nei boschi. A misura che la radice si essicca le emorroidi si riducono e poi scompaiono. Giova per lo stesso male l’edera fritta nell’olio, l’empiastro di parietaria e il tono d’ovo sbattuto.
I rimedi contro il gonfiore della milza si contano a dozzine. Eccone alcuni: si lava l’enfiagione con una saponetta che faccia schiuma, quando la saponetta è consumata sparisce o dovrebbe sparire il gonfiore. Ovvero si adopera un empiastro composto di miele, vino e sigari napoletani, triturati, oppure si sotterra una milza di bue in un posto ove il malato non dovrà mai passare; man mano che questa milza si consuma scema e sparisce il gonfiore. Si può anche far battere il male; cioè si chiama un uomo pratico di queste cure, il quale con un coltello tagliente batte sul gonfiore. In tal modo la milza si tagliuzza e si distrugge senza la pelle resti offesa.(Vero miracolo di chirurgia)
Lo sterco di vacca è buono contro la risipola, l’orina di porco maschio serve a liberar le mani dagli spiriti che possano esservi entrati.
L’acqua ove bevono i cavalli e quella ove i fabbri spengono il ferro infuocato è buona per il mal d’occhi.

GLI INCANTI

Sono formule o scongiuri, capaci, per virtù magica, di preservare dagli infortuni ed a guarire dalle malattie
Vi sono incanti che dirò generici perché buoni contro tutti i mali in genere; ve ne sono altri specifici da adoperarsi per determinati oasi
Fra i primi gode molta fiducia quello che va sotto il nome d’epistola di papa Leone (sembra sia Leone IV) che qui riporterò come l’ho trovata in un antico libro, colla relativa prefazione, procurando di correggere qualcuno dei molti errori che l’infiorano.

Epistola di papa Leone


Nelle istorie si legge che il sommo pontefice papa Leone mandò scritta quest’epistola al re Carlo imperatore in tempo che combatteva, onde il re Carlo comandò che fosse letta per l’esercito e che ognuno se ne facesse la copia e la portasse indosso perché la medesima ha le seguenti virtù:
1 Qualsiasi persona che la leggerà o la porterà indosso non le succederà alcun male dai suoi nemici e non sarà offeso da qualsiasi arma e le riusciranno bene tutti i suoi negozi 2 Qualunque donna stesse in disgrazia di suo ma rito, avendo questa, il marito tornerà ad amarla come prima (avviso alle donne dei giorni nostri). 3 Se si trova nell’estremo della vita, con fidando nella misericordia divina, non potrà l’anima essere vinta dal demonio. 4 Chi la porterà o leggerà e dirà ogni giorno cinque Pater, Ave e Gloria in onore delle cinque piaghe di N.S.G.C. avrà grand’esperienza. 5 Si legge che il re cattolico (?) una mattina doveva far decollare un reo di morte ma che il carnefice non riuscì a compiere il taglio della testa Fu cercato indosso al reo e li fu trovata la suddetta epistola.
6 Se qualche donna non potesse partorire, mettendole indosso questa, partorirà senza dolore (Avviso alle levatrici). 7 Se qualcuno avesse perduta la grazia del suo padrone, o amico, si metta indosso questa e sarà amato come prima (avviso ai capi d’azienda). 8 Se ad alcuno uscisse il sangue dal naso e non volesse cessare, gli si metta indosso questa e cesserà.
9 Chi porterà indosso questa con devozione non sarà offeso da nessun animale velenoso, né da cani arrabbiati e non avrà morte improvvisa Chi viaggerà, sia per mare come per terra a   vendo indosso la presente, avrà viaggio felice senza temere di cosa alcuna.
Comincia ora l’epistola:
“In nome del Padre + del Figlio + dello Spirito Santo + Così sia.”
“Domenico mi riduca + Melchiorre mi conduca + Baldassarre mi produca + Signore nel mezzo delle tribolazioni mi vivificherà e sopra lo sdegno dei miei nemici si mostrerà la sua mano e salvo mi farà la sua destra per il segno della Croce + mi liberi il Signore dai miei nemici e nascon dai suoi occhi acciò non mi vedano (?!) il loro cuore sempre intimorisca, li renda senza potersi muovere senza che io passi.
“Domenico asconda, Baldassarre, dissipi, Malchiorre tenga tutti i miei nemici acciò non abbiano potere di offendere me, servo di Dio (Domenico). Ecco il segno di Croce +. Fuggite parti contrarie: ha vinto il Leone della Tribù di Giuda; radice di David. Cristo regna + comanda Cristo + da ogni parte difenda la sua (?). Il mio aiuto sia nel signore che ha tutto il cielo e la terra. Dio mio rendi salvo me tuo servo (Domenico) che ha tutta la speranza in te e tu Santissima Vergine Maria, santi angeli ed arcangeli, troni, dominazioni, principati, potestà, virtù dei cieli, cherubini, e serafini, patriarchi e profeti, apostoli ed evangelisti, martiri e confessori, sacerdoti, leviti monaci ed eremi ti, penitenti e pellegrini, vergini e vedove, coniugati, innocenti, tutti i santi e sante di Dio siano in aiuto di me servo di Dio (Domenico) acciò non mi offendano i miei persecutori e così sia.
“Vi scongiuro anche per Maria Madre di Dio Sig. nostro G.C. per la di lei assunzione, per la croce, morte, sepoltura e resurrezione di N.S. G.C. per la venuta dello Spirito Santo paraclito, e per il giorno del giudizio quando verrà a giudicare i vivi e i morti e disfarà il secolo con il fuoco, acciò non mi possiate offendere me servo di Dio (Domenico). Vi scongiuro spiriti maligni per i santi arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele acciò in niuna guisa possiate offendere me servo di Dio (Domenico) e tu beatissima Vergine, madre di Dio, Signora degli orfani, consolatrice degli abbandonati, strada degli smarriti, salute di tutti quelli che sperano in te; Vergine dopo il parto, fonte di misericordia, per la pietà ed allegrezza di cui esultò il tuo spirito in quell’istante in cui per l’arcangelo Gabriele fosti annunzia tale fu concepito il figlio di Dio e per l’immacolata sua concezione rendi mondo il mio cuore e la mia carne nel nome del Padre + del Figlio + e dello Spirito Santo e così sia. “Vi scongiuro o pietre per S. Stefano protomartire per i quattro Evangelisti Matteo, Luca, Marco e Giovanni e per la santa legge di Dio data a Mosè nel mondo, acciò non abbiate possanza di offendere me, servo di Dio (Domenico) Vi scongiuro anche per il santo battesimo di N.S.G.C. fatto per la salvezza dei fedeli nel fiume. Giordano, acciò non abbiate possanza di nuocere a me (come sopra).
“Vi scongiuro, o doni dello Spirito Santo, acciò non permettiate che sia tentato ed offeso dal nemico maligno.
“S. Maria, vergine gloriosa e benedetta aiuta, me (Domenico) nella mia necessità e liberami da tutti i pericoli. Maria, mia mediatrice avvocata, conciliami a tuo Figlio. Grande Iddio, carità, benevolenza, amabilità ed amicizia. Loda Dio. Fine.”

INCANTI PEI DOLORI

Si dicono 7 ave Maria alla Madonne. Addolorata. Poi si prosegue: Invoco voi, Maria Addolorata, per i sette dolori che aveste nel vostro cuore, di far fermare questo dolore. Si ripete tre volte facendo ogni volta la croce col pollice destro.
Altro incanto pei dolori è questo: Vergine Ma ria, prima la vostra santissima mano e poi la mia +. Erano tre zitelle, portavano tre scodelle, una d’acqua, una di sangue, una di sale, per virtù di Dio e delle tre potenze divine: Padre di sapienza, Figlio di Passione, Spirito Santo. Dirai sette Ave Maria.
Per le coliche delle bestie vale poi il seguente incanto: Si prende una piccola bacchetta di legno e si batte tre volte il corpo della bestia ripetendo ogni volta: Batto questo corpo come fu battuto il Santissimo Corpo di N. S. G. C. di far guarire questo dolore (trattandosi di coliche il rimedio è semplice; non vi pare?)

INCANTI PER LE DISTORSIONI

Se si tratta di un uomo gli si pone intorno al collo del piede una pezza di tela larga 4 oncie, se si tratta di bestia invece della tela si usa un pezzo di corda. Quindi si dice: Fermati stortura come si fermò N.S.G.C. alla colonna; si fa un nodo piano e si segna colla croce, operando col pollice destro. Si prosegue: Fermati stortura come si fermò N.S.G.C. nella incoronazione di spine (nodo e croce come sopra.) Fermati stortura come si fermò N.S.G.C. sui chiodi (altro nodo e altre croce).
Altro incanto per le distorsioni è questo: Io segno questo nervo accavallato come Cristo fu morto e poi risuscitato. Si fa la croce e si ripete tre volte.

INCANTI PEL MALOCCHIO

Si prenda un bicchiere e si riempia d’acqua a metà. Si prendano tre capelli dalla persona su cui si fa l’incanto. Si preparano quindi sette coppie di chicchi di frumento; se ne getta una nell’acqua con queste parole: Sette fratelli carnali in vigna stavan: tre zappava tre vangava, ed uno l’invidia scannava. Si pregava la Vergine Maria che l’invidia l’avesse mandata via. Si getta quindi un’altra coppia di chicchi nell’acqua ripetendo la stessa formula e così di seguito.
Si prenda colle forbici un carbone acceso,con esso si fanno alcuni segni cabalistici dinanzi la vittima del malocchio. Quindi si spegne il carbone nell’acqua; e se esiste effettivamente il malocchio sull’acqua resta una specie di stelletta.
per conoscere l’esistenza del malocchio si possono anche prendere nove grani di sale si fanno con esso i soliti segni cabalistici e si gettano sui fuoco. Se c’è il malocchio il sale invece di scoppiettare si annerisce.

INCANTO DEI CANI

Si prende una striscia di pelle di cane conciata, si fa su di essa un nodo pronunziando queste parole: Cane canizio, corpo di Cristo, quando nacque questo cane non c’era né Cristo né Cristiani. Corpo di Cristo in croce a questo cane leva la voce.

AMULETI CONTRO IL MALOCCHIO

1 Pelo di cane, pelo di tasso, sale, quattro chicchi di grano, aglio, pane, un’immagine della Madonna ed una medaglia
2 Due acini di grano, due chicchi di sale, due fogli d’olivo benedetto
Si mette il tutto in una borsetta che deve esse re tenuta sul cuore del paziente per 10 giorni. rai la borsetta si getta a fuoco.
L’autore del malocchio, dopo 10 giorni verrà a chiedere del sale che si dovrà negare. -Allora chiederà perdono del malfatto.

INCANTO PER LE INCHIODATURE

Quando una bestia da tiro o da sella si ferisce coi chiodi dei ferri che ha sotto gli zoccoli, si dice che ha l’inchiodatura. Per guarirla si prende il chiodo che ha causata la ferita e si conficca in terra con un martello dicendo: Fermati punta di veleno, come si fermò Cristo alla colonna.

INCANTI PER LA RISIPOLA

Si aspetta l’ora del tramonto e si dicono queste parole: Potenza del Padre + Sapienza del Figlio + Virtù dello Spirito Santo + (Queste croci si devono fare col pollice sinistro). Si prende una foglia d’olivo benedetto il giorno delle Palme, ed un pezzo di argento e si dice: Terra fusto e palma nascesti, questa risipola vada indietro e non più avanti,che io la segna coll'argento e colla palma bene detta. Contemporaneamente si fanno tre croci sulla parte malata. Anche quest’incanto sia fatto sul tramonto

INCANTO PER LA PLEURITE

S. Ambrogio di Francia (!) colla spada e colla lancia, passa per una via ed incontra Cristo e Maria. Spunta in nome mio, acciocché questo dolore vada via, Si fa la croce coi pollice destro nel punto ove si sente dolore.

INCANTI PER I VERMI INTESTINALI

Dirai: Lacci infusi e paglia dona + vita benigna e donna sovrana. S. Giobbe e S. Giuliano il mare passaste. Legami questi vermi come fu legato Cristo. Si fanno due croci. Si pone la punta di una cannuccia di pipa nell’ombelico e si gira su sé stessa. I vermi attratti dal puzzo della pipa si radunano intorno alla cannuccia e scompaiono.

INCANTI PER FERMARE LE EMORRAGIE

Si prende un'erba qualunque di quelle che nascono spontaneamente senza essere state semina te dall’uomo. Si mastica, si applica sulla ferita, si segna colla croce e si dice: Erba creata e non nata ridammi la virtù che Dio t’ha data.
“Ferro gioioso che da Gioioso venisti;passasti il mare e non ti affogasti, passasti il fuoco e non ti bruciasti; legami questa ferita come fu legato Gesù Cristo (segno di croce col pollice destro sulla ferita).
Sangue sta in te come Cristo stette in sé. Sangue sta fisso come Cristo stette crocifisso.

INCANTO PER LA SLOGATURA DELLA SPALLA DELLE BESTIE

Non occorre che la bestia assista all’incanto. Basta che l’incantatOre ne sappia il no me ed.~il colore del marito.
Le parole sono queste: Sia lodato Dio e San Simone. S. Abramo e S. Susanna. Prego Dio che quel cavallo che si chiama.... (nome e colore) possa camminare col nome di Dio e della SS.ma Trinità.

INCANTO PEI MALI DELL’UTERO

In cima a Ponte Sisto trovai Gesù Cristo.Che vai facendo lana; la madre concepisce, chiama Pietro che vada in Paradiso; piglia dell’erba viva e la mena sulla pancia. Padre, Figlio, Spirito Santo. Sia benedetto sempre l’utero della SS.ma Trinità (!!!).

ALTRE SUPERSTIZIONI

Quando si sente cantare il gallo di sera si avrà all’indomani tempo buono, sei i canti sono di numero pari; pessimo se di numero dispari.
Se mangiando le fave crude si trova un baccello con sette fave è bene conservarlo, essendo una preservativo contro le jettature
Se una chioccia comincia a covare di venerdì i pulcini non nascono.
Nel tempo poi della falciatura le uove si debbono mettere sotto la chioccia a tarda sera perché, in caso contrario, i pulcini nasceranno storpi, Le uova dei pavoni si debbono mette re sotto cova in tempo di luna piena.
Il voltolarsi sulla terra ai primi tuoni di marzo preserva da molte infermità ed il tagliarsi i capelli il primo e l’ultimo venerdì di marzo salva dal dolor di testa.
Se si ferra un cavallo in tutte e quattro le zampe contemporaneamente si fa cattivo augurio al padrone del cavallo.
Se si batte con una canna sulla testa d’un fanciullo questo non crescerà di statura; se poi con una canna verde si batte una bestia le verranno i dolori.
Quando alla sera si copre il fuoco si deve fa re una croce sulla cenere affinché il demonio stia lungi dalla casa.
Il trovare un ferro da cavallo porta fortuna. (Io ne ho trovati tanti….)
Quando le vacche o le pecore saltano sui campi presto pioverà e così pure quando la maggior parte dei buoi d’una mandria giace coricata sul lato sinistro del corpo.
Quando Caino ebbe ucciso Abele prese un fascio di spini e cercò di coprire con essi la luna. Questa sarebbe l’origine delle macchie della luna.
Chi ha commesso un omicidio può liberarsi dall’incubo, gettando una moneta da due soldi sul cadavere della vittima o lambendo il coltello insanguinato, La palma benedetta tenuta in casa salva dai fulmini. Mettendola su certe croci di canna insieme a un po' di sale; e spargendo queste croci pei campi si ha un preservativo contro la grandine, il fuoco, le tempeste ecc. (Addio, Compagnie di Assicurazioni). Se un rospo vi guarda, vi verrà il mal di testa.
Chi trova un rospo e vuole ucciderlo deve badar bene di ucciderlo veramente e di non lasciarlo ferito, perché il rospo aspetterà che l’uomo si sia addormentato e gli farà una croce intorno per farlo morire. Altrettanto avviene a riguardo delle serpi. La serpe ferita fa ammalare l’uomo, il qua le non guarirà se prima non guarisce l’al tra.
Perciò i campagnoli quando hanno ucciso un serpe od un rospo lo infilzano in una canna o bastone che poi conficcano in terra. Chi si imbatte in una biscia che stia inghiottendo un rospo deve uccidere la biscia colla mano destra e poi toccarla colla stessa mano. Dopo ciò la sua mano può sciogliere gl’incanti e fermare qualunque dolore.
Quando si vuoi dire che un bambino è bello o che una bambina è bella si deve aggiungere: che Dio lo benedica. Altrimenti gli si fa il malocchio.
Chi vuole estirpare la felce da un campo de ve intingere nell’aceto la pietra con cui affila la falce, e falciare nel mese di agosto. Se si tagliano i peli che sono dentro le orecchie scema il cervello e si diventa èbeti.
Per potere eseguire le fatture (cioè per poter attirare ad altri malattie od altre disgrazie) occorre esser nati dopo sette mesi di vita uterina ed essere il settimo tiglio.
Per preservare una casa dalle disgrazie giova mettere lumi accesi fuori delle finestre nella notte dell’Ascensione. Gesù Cristo passerà a spegnerli.

Le Streghe

Le streghe sono donne vive e reali che mangiano, bevono e vestono panni e che per virtù diabolica possono compiere malefici, attirare malattie, mandare all’altro mondo e fare altri simili cortesie.
Non ogni donna può essere strega. Condizione prima e indispensabile è che sia nata la notte di Natale, prima dell’ora in cui nacque il Santo Bambino. Occorre poi che quando è giunta all’età di sette anni sia chiamata dalla capo  strega (poiché anche le streghe hanno una presidentessa). Se la bambina ha l’avvedutezza di non rispondere è salva, ma se risponde ed esce fuor dia casa diventa strega.
Le streghe sono esseri permalosi e vendicativi oltre modo. Guai a rifiutar loro qualche cosa che abbiano chiesta ! La loro collera è tanto più terribile in quantochè esse, per vendicarsi possono trasformarsi in mille guise, persino invento, al fine di entrare per la finestra, quando trovano chiusa la porta. La trasformazione preferiti è però quella in gatto; forse perché il gatto è animale domestico e non dà sospetto se gira di notte. Per il solito le streghe prescelgono le loro vittime fra i bambini. Quando una strega ha deciso di far morire un bambino, lo porta sul camino e lo fa passare attraverso le maglie della catena che serve a reggere il caldaio. Per salvare il bambino da questi pericoli si pone loro in dosso un cuoricino di stoffa, contenente pelo di bufalo, sale, un pezzo di stola di prete ed altri amuleti.
Vi sono poi altri modi per difendersi dalle streghe.
Se si pone un lume acceso sotto un vaso e poi si scopre improvvisamente questo vaso è faci le prendere la strega la quale sta là meditando chi sa quale bricconata.
Giova anche sotterrare un cagnolino nero appena nato presso la porta di casa. Sembra che esso incuta un salutare terrore alle streghe te quali non osano varcare quella soglia. Oppure si mette dietro la porta di casa il va so del sale e la scopa.
La strega, passando di notte, si ferma a conta re i grani del sale ed i fuscelli della scopa; intanto spunta il sole e la strega deve batte re in ritirata.
Spesso le streghe si prendono il gusto d’inforcare i cavalli di qualche fattoria e di abbandonarsI, sempre durante la notte, a corse sfrenate.
I cavalli di cui si sono servite queste rusticane amazzoni si trovano la mattina colla criniera tutta arruffata.
Chi desiderasse vedere le streghe, deve, un venerdì sera, mettersi su di un bivio tenendo la testa poggiata su di un bidente. Le streghe non amano farsi vedere, ma, trovando un uomo in quel la posizione, non possono nuocergli.
Per le loro spedizioni preferiscono il venerdì. Perciò in campagna se taluno nomina le streghe suole aggiungere: Oggi è sabato a casa mia. Narro qualche aneddoto, Un certo Fioritti mi raccontava che una sua figlioletta era stata succhiata da una zia strega (me ne disse anche il nome). La bimba poco dopo morì e Foritti, temendo per un’altra sua figlia, soleva dormire col lume acceso, Una notte però le streghe entrano nella stanza da letto, spengono il lume, prendono la bimba e la mettono sotto la culla, Ai suoi vagiti si destano i genitori che subito accorrono a raccoglierla. La culla era fatta in modo da doversi escludere che la bambina potesse esser caduta per disgrazia: almeno così assicurava il Fioritti.
Un tale Vergati rubò pochi grappoli d’uva ad una sua comare strega.
Costei, scoperto il ladro, lo va a trovare di notte, trasformata in gatto e gli morde una spalla in modo che nessun medico è capace di guarirlo. Il vergati dové recarsi dalla comare, la quale, toccandogli la spalla, subito lo rinsanì.

I CANTI

I canti dei nostri campagnoli variano secondo la contrada cui essi appartengono sono però tutti qual più, qual meno, rozzi nella sostanza e nella forma come si può a spettare da gente sprovvista di qualsiasi cultura.
L’amore fornisce molto spesso argomenti a questi canti, specialmente ai ritornelli; ed i canti amorosi sono i meno barbari, anzi talora non mancano di qualche gentile espressione. Gli altri sono per lo più di soggetto satirico o narrativo e abbondano anche quelli affatto osceni.
Escludendo naturalmente questi ultimi, darò qualche saggio degli altri generi di poesia, così come li ho uditi dalla bocca dei vati e dei cantori; il lettore benevolo correggerà gli errori di grammatica e di prosodia.

Sè stato a lavorà a ponte Galera
Dove che ci risiede ogni persona,
Tre once pesa una pagnotta intera
Nera più della notte quando trona (tuona)
Il companatico par che te lo dona
E puzza più d’un.....
L’olio te lo misura a bicchierini,
Vai dal capoccia e non ci son quattrini.

Ama lo bifolchetto, ama la rosa,
Lo bifolchetto è lo spasso de casa
Governa (mantiene) la su moglie a panza vota

In corpo alla mia madre cominciai
A non aver mai bene in vita mia,
E nelle fasce dove m’infasciai
Erano piene di malinconia
La concolina (catino) dove mi lavai
Non era rotta e l’acqua se n’uscìa
E quando mi portorno a battezzare
Il prete mi si morse (morì) per la via

Un giorno andavo a spasso per Cesano
E rimiravo molte donne belle
E ve lo giuro da felel cristiano
Ch’erano più le brutte che le belle,
Bianche e rossette come il zafferano (cioè gialle)
E nere come culo di padelle.
Di vento marino erano abbottate (gonfie)
Parevano tante donne maritate.

Povero bove che non ha parola
Con gran fatica lo tira l’aratro
E basta che lo mette un piede infora,
Subito dal bifolco è maltrattato
E il capoccia risponde: che fai sciagurato?
E col bastone alzato e brusca cera
Dice: Tocca li bovi co’ maniera !

Amico se vuoi far da caro amico
Sta lontano da me quando che io mangio
Quando che mangi tu chiamami amico
Che amici ci saremo tutto l’anno

Nel tempo che regnava il re Pipino
Le tartarughe andavano alla guerra
Il rospo lo faceva il tamburino
La ranocchia portava la bandiera
Lo scardafone (scarabeo stercorario) ché era lo più dotto
Facea le palle per caricare lo schioppo

So stato a lavorà a Casal dè Ricci.
Dove si fanno li lavori esatti
Passi per la maggese e te c’impicci
Pare lo sgarufato (posto dove il gatto ha raspato colle unghie) de li gatti.

Ci aveva un somarello che mi si è morto
Mò son contenti li lupi e li cani
Mò non si porta più lo stabio (letame) all’orto,
Non si mangiano più li marignani (forse anatre selvatiche?).

Mi misi a fabbricare un bel castello
Per essere chiamato castellano
Dopo che l’ebbi fabbricato e bello
Le chiavi mi levaron dalla mano,
Mi fecero passar per uno sportello,
Credendo ch’era vicino, era lontano
Così faremo noi, core mio bello,
Stiamo tanto vicini e non ci amiamo

Troia (compagno) come facesti carnevale?
Misi la pila per far l’acquacotta (cibo usato dai campagnoli)
Quando mi avvidi che non c’era il sale
Ruppi la pila e feci carnevale

Senti che mi successe l’altra sera
Mi misi a litigar colla fornara
E glie lo dissi: brutta tinca nera
E lei mi corse appresso colla pala
E se un amico non mi soccorreva
Oh, Dio! Quante palate che mi dava
E se campassi cento ventun anno
Più fornare non vado stuzzicando.

L’altra sera mi successe un caso
Che a raccontarlo quanto è mai curioso
Trovai una vecchia che mi diede un bacio,
Mi morsicò col dente velenoso.

Sia benedetto chi l’ha fatto il mondo
Ché chi l’ha fatto l’ha saputo fare
Prima fece la notte e poi lo giorno
E poi l’ha fatto crescere e calare;
Fece lo mare che non ha mai fondo
Fece la barca per poterci andare
Fece la barca e fece il barcaiolo
Fece la donna per contentare l’uomo.

Voglia di lavorar saltami addosso
E tu pigrizia non m’abbandonare,
Io voglio lavorai meno che posso,
La mia vita non voglio strapazzare.

Disse Sant’Agostino alle ranocchie
Degne non siete di portar stivali
Perché ci avete le gambette storte

Io mi alzo una domenica mattina
Piglio la vanga e me ne vò a potare
Azzecco a (salgo) un fallacciano (fico)
invece era una cerqua (quercia)
Loco (ivi) me magno quattro grognali (ghiande)
S’affaccia la padrona alla finestra:
“Non te magnà tutti li fallacciani”
Me tira un sasso e me lo coglie in testa
Me fece uscì lo sangue da un calecagno (calcagno)

Pietro per carità, chiudi le porte
E in cielo non fa entrai chi fa la spia
Chi fa la spia è condannato a morte!
Pietro per carità, chiudi le porte

Quando che pigliò moglie Bruttapelle
Si mise la camicia a capo a balle; (all’ingiù)
Quando che se ne accorse la sua moglie
Glie li diede due calci nelle....spalle!

Quattordici burrin dentro un caldaio
Veniteli a sentir che brodo buono
Si levava la schiuma col cucchiaio

Chi dice che la forza l’ha un Sansone,
O veramente un capitan di guerra,
Io dico che la forza l’ha un testone (moneta)
Che alle donne fa mette il.....piede in terra.

Voglia che tu non hai di lavorare
Fammi trovai la casa ben pulita;
La casa è sporca e non la vuoi scopare
Chi combatte con lei fa una gran vita.

Quando la ciociara si marita
A chi dona lo spago a chi la ciocia.
Quando la ciociara s’è maritata
Lo spago rotto e la ciocia sfasciata

Un giorno andiedi a spasso per un giardino
Dentro che c’era una bella peschera
Ce n’éra tanto de pesce marino
Che l’acqua chiara intorbidata, era
Io mi misi a pescai col mio retino,
Di pesce ne pigliai quanto ce n’era;
Presi una tinca per maggior destino
…. Che poi l’affumicai sotto al camino.

STORNELLI


Fiore di more
E chi non fa all’amore è un animale
Io per la parte mia lo fo di cuore.

Fior d’amaranto
Li sogno li bottoni color d’argento.
Peccato ch’io non possa sperar tanto.

Visetto bruno
Tutti vonno saper come mi chiamo
Mi chiamo: non mi fido di nessuno.

Viole bianche
Lo so che avete un core solamente.
Come farete a contentarne tante?

Fiore di latte
E tu me la desideri la morte
Più me ne fai e più cerco d’amarte.

Fior d’uva passa
Se ci sposiamo noi che bella coppia
E tutti e due cogli occhi di gatta.

Fiore d’argento
Chi ci si troverà all’amaro pianto
Quando parte il mio amor pel reggimento.

Sora Peppina
Ci avete la presenza di Diana
E la beltà di Venere divina.

Fiore di latte
E la tua madre ti ha fatta di notte
Tu sei la più carina di 'ste fratte

Fior di giunchiglio
Considerate il bene che vi voglio
Come la madre quando allatta il figlio.

Fiore di lino
Butti l’odor dello tulipano
Pari una rosa colta allo giardino.

Fiore di pepe
Salutatemi il primo che incontrate
Prima l’amore mio poi chi volete.

Sora Cecilia
Non è più ora che ci state a balia
Siete del matrimonio alla vigilia.

Sora Felice
E la persona tua quanto mi piace
M’hai fatto diventar come un’alice.

Sora Mariuccia
Beato chi ti stringe e chi t’allaccia
E chi ti bacerà quella boccuccia.

Sora Nunziata
Dicono tutti che non vali un zeta
Io dico che dal cielo sei calata.

O Menicuccia
Quando ti vedo il cuore mi si agghiaccia
Quanto baciar vorrei la tua boccuccia.

Sora Giulietta
Siete più bella voi che qualunque altra
Come voi non ce n’è un’altra perfetta.

Ersilia bella
Quando cammini lo petto ti balla
Dal ciel venuta mi sembri una stella.

Sora Teodora
Ci avete quella faccia tanto cara
Che chi la guarda presto s’innamora.

Sora Maria
Poveretto chi di te s’innamora
Perché ami tutta la gendarmeria.

Fior di finocchio
Siete più tenerella d’u abbacchio
Ci avete bianco il viso e nero l’occhio.

Fiore di grano
Sei troppo piccolina per un uomo
Mi sembri una ranocchia di pantano.

Sora Agnese
In punta a le scarpette porti le rose
Manco se fossi figlia d’un marchese.

Fiore di more
Sempre una frascatana voglio amare
Una frascatana mi ha rubato il core

Fior di pisello
Ho visto un capobuttero a cavallo
M’ha fatta innamorar, quant’era bello.


Fiore di prati
Se stai un altr’anno che non ti mariti Ti puoi chiamar consuma innamorati.

Fiore d’argento
E pel tuo amore ho camminato tanto
Poveri passi miei buttati al vento!

Fior d’amaranto
Quando farai sto core mio contento? Quando seduto potrò starti accanto?

Fior di granato
La vigna non può star senza canneto
Manco la donna senza innamorato.

Fior di cipresso
Il primo amore l’ho mandato a spasso
Quanto mi piace l’amore d’adesso

Fagioli neri
Era una volta che te li capavi
Mo ti tocca pigliar chi non volevi

O bella vita
Meriteresti di esser maritata
L’anelli d’oro a tutte le dita

O li rovelli
E come li volete li coralli?
- Li voglion grossi martellati e belli.

Fior di gunchiglia
Io te lo dico da fedel compagna
Ti vien per canzonar, non ti si piglia

Fiore di lauro
Di cantare con voi ho desiderio
Cogli altri fo l’amor, con voi mi svario

Fiore di more
Sempre un bifolchetto voglio amare
Perché un bifolchetto è lo mio amore

Fior di finocchi
Bella la camminata e meglio i tratti
La calamita la porti negli occhi

Giù pe’ ste valle
Sento suonar due belle campanelle
Quello è l’amore mio colle cavalle.

O che malanno
Ho saputo che li vostri non vonno
Manco li miei. Che diavolo avranno

Fiore di grano
Amici più di prima ci saremo
Amici più di prima da lontano.

Fiore fiorello
E lo mio amore è soldato a cavallo
Spero di rivederlo colonnello!

Fiore d’alloro
Me lo voglio pigliare un salnitraro (chi lavora il salnitro, salnitrajo)
Se azzecca la stagion mi vesto d’oro.

TERZINE


Me ne vado dove leva il sole
Dove confina lo Stato papale
Dove sta la speranza del mio cuore

Me ne voglio andar verso Fiorenza
A trovare la rosa senza pianta
Bella ti voglio amar di prepotenza

Ci avete due riccetti fatti ad esse
E vi chiamate canzona-ragazze
Di canzonarmi a me non vi riesce

Ci avete due riccetti lunghi un dito.
In mezzo ce n’avete uno dorato
Felice chi sarà vostro marito.

Ci avete due bellissime pupille
Ad ogni guerriero fate abbassà l’arme
Siete la figlia del guerriero Achille


Mamma non mi dà chi dico io
Prendo la strada e me ne vado ad Albano
Mi sposo un albanese a genio mio.

Se monaca ti fai frate mi faccio
A qual convento vai, ti vengo apprese o
Padrona non sarai muovere un passo

Dove sta lo mio amore possa piove
E per ombrello gli mando il zinale (grembiale)
Se non basta il zinale pure il core

Se leggere sapessi leggeria
Se scrivere sapessi anima cara
Una lettera al giorno ti faria

Ci avete gli occhi neri del colombo
La cavalcata del caval’ d’Orlando
Voi siete la più bella de ‘sto mondo

Voglio farmi un coltello scannellato
Non me ne curo pagarlo uno scudo
T’ammazzo e me ne vado carcerato

Marchigianello vattene alla Marca
Digli all’amore mio che non m’aspetta
Che a Roma mi son fatto la ragazza

Io benedico Piazza Barberina
Il Tritone con tutta la fontana
Benedico il mio amor’ che ci cammina

Mi chiamo Marietta e posto il busto
Minchionata non m’ha nessun ragazzo
Non è da voi a canzonar ‘sto fusto

Che serve che me fai tanto la cicia
Che tanto un bifolchetto ti si sposa
Che non possiede manco la camicia

Lo mio amore le para (fa il guardiano) le vacche
E quanno è ‘na cert’ora le rimette
Fa la giuncata e a me da lo latte

O S. Antonio mio na grazia voglio
Fallo cascà er mi’amore da cavallo
Ma pè sta volta liberar lo voglio

Il primo amore è stato un guardianello
E lo secondo un capoccia a cavallo
E l’ultimo sarà st’amore bello

Li bifolchetti di Santa Severa
La sera vanno a spasso co’ la dama
Sigaro in bocca e la borsa leggera

Quando sputi per terra sputi fiori
Quando parli con me n’angelo pari
Quando cammini la gente innamori

Quando si leva il sole e fa l’eclisse
Rammentati amor mio delle promesse
Quando ti chiesi, il cor cosa ti disse ?

M’è stato regalato un bel trinciante
Lo porto in petto o mamma non sa niente
E me l’ha regalato il primo amante

E lo mio amore sta all’aria cattiva
E tutti me lo dicono s’ammala
Mi pare invece più bello di prima

Il mio amore quattro bovi attacca (aggioga)
Prima si fa la croce e poi li tocca
Poi tutto il giorno pensa alla ragazza

Se mi lasciate voi guance benfatte
Guerra per tutto il mondo voglio mette (mettere)
Voglio far come fece Brandimarte

All’ara (aia) all’ara che la trita è messa (la trebbiatura è iniziata)
E chi ci ha la ragazza se la porta
Così lavora con più contentezza

Mi parto dall’aratro e vado a fieno
Dalle vostre bellezze mi allontano
Basta che non ti muti di pensiero

So’ stato a lavorare a Prima Porta
E dei denari non ho visto razza
Altro che bastonate sulla groppa

Vi siete innamorata di quel tappo
Ci vuole la sedia per portarlo a letto
La testa non gli arriva al materasso

Quando sposiamo noi amore caro
Famo venir li suoni da Marino
O veramente il concerto da Albano

Ci avete tutte e sette le bellezze
Ci siete nominata per le piazze
Ci avete l’occhio nero e le bionde trecce

Pregatelo di core S. Clemente
Che vi faccia trovare un altro amante
Quello di prima non se ne fa niente

Il mio amore se n’è andato a Novara
A fare quattr’anni di cavalleria
Povero amore mio che vita amara

Pregatelo di cor Gesù Bambino
Che vi faccia trovar l’amante buono
Lontano dallo gioco e dallo vino

Se il Papa mi donasse tutta Roma
E mi dicesse lascia andar chi t’ama
Io gli direi di no, Sacra Corona

Se il Papa mi donasse tutta Orte
E mi dicesse lascia 'ndar Giuseppe
Io gli direi di no, dammi la morte

ALCUNE FRASI e parole  CARATTERISTIChe


Daremo qui un saggio d’alcune frasi e termini usati in campagna che non si trovano sul vocabolario, o che se vi si trovano sono adoperati con un senso diverso da quello loro naturale e che perciò, più che ad un dialetto, apparterrebbero ad un gergo campagnolo.

Accorta   Bestia prossima al parto
Allaccia   Corri
Appuntato   (andare) adagio
Arcquiglio   Erba tenerissima
Arrotino   Colui che sa far male il suo mestiere
Attacconare   Stringere forte le ginocchia per non essere sbalzato di sella.
Beccacce, o Frascatani (passare le beccacce o i frascatani) far freddo intenso
Bilancino   Uno che vive a scrocco
Birracchio   Vitello che promette pessimo sviluppo
Bistecche   Bestia cavallina magra e malandata
Brutto   Assai
Caccavelle   Quattro stracci
Cacciatora   Vacca da macello
Cafurchio   Piccola e scomoda catapecchia
Caino   Aratro con dentale (detto anche perticara)
Camarro   Bue vecchio
Campica   sonnerello
Cazzola   Conversazione per lo più di ragazzi
Cifone   ovv. Mifero   Vacca Brutta e non domata a suo tempo.
Ciociaro   Lepre
Colonello   Uomo dalle gambe impiagate.
Cordesco   Tardivo (dicesi dei piccoli delle bestie)
Crepaccio   ovvero Cristo (da un). Fare una forte caduta.
Cucca   Vedi: Pentecana
Cuppolone   Abruzzese in genere e del circondario di Sulmona in ispecie
Fallone   ovvero Tanchitto   Pane di granturco fatto dai guitti
Ferretto   Aculeo
Frasta   ovvero Sciurta   Vattene, esci fuori
Gatto   Piccola porzione di terra lasciata in sodo fra le maggesi (zone soggette a periodica lavorazione)
Garufente   Brutto miserabile
Gargottara   Azienda disordinata
Gazzola   Piccola porzione di terra fra due o più fòssi
Ginestrone   Indigestione
Gnucco   Babbeo
Guittone (non quello… d’Arezzo). Fannullone
inciarmare   Abbindolare
Jacomo jacomo   piano piano
Lanca   Fame
Maglione   Toro castrato
Mazzo - chiavi (fare il mazzo, far le chiavi) Durare molta fatica
Mola   il ribaltare d’una barrozza
Moscetto   piccolo proprietario di pecore
Nùdola   vacca sui tre anni
Paldriccia   zolla di terra
Pagnotta (far la…). Colazione che fanno i bifolchi
Aver pagnotta significa aver maniera specialmente nel raccontar favole.
Parecchio ovvero, vetta   pajo di buoi aggiogati
Pentecana   Vulva (tra i quaranta nomi citati dal Belli nel suo sonetto questo manca)
Porchetti   i covoni che cadono dalle barrozze (carri piani a due ruote) mentre si trasportano sull’aja.
Presa   Porca di terra (striscia di campo formata dalla terra del solco)
Punta   Mandra di cavalli
Quarto   Grande appezzamento di terra non recinto di staccionata.
Rapazzola   Letto del campagnolo comunque fatto.
Scafare   Cambiare il pelo
Scarpetta   L’atto del coito ovv. il mangiar un avanzo di minestra od altro aiutandosi col pane.
Scattone   Animale lattante di qualunque specie
Scinciare   Guastare
Scorso (levare lo)   Pelle
Serta   Quattro buoi aggiogati parallelamente
Sguerci   Piccoli salti dei cavalli
Spaccare   Fare un solco solo e diretto
Spallata (dare una) piccolo aiuto.
Tronco   Grosso branco di bestiame bovino.
Truffa   Zucca vuota che si adopera per riporvi il vino o l’acqua.
Vato Ovile
Verace   Bestia con un solo testicolo
Verdone ovv. Marro   Montagnolo
Zaurro   Uomo dappoco o malandato
Zirlivarli   Cianfrusaglie, gingilli.


Brigandi, dispense, sensali e caporali.

I BRIGANTI

Il brigantaggio classico, quello esercitato da bande armate e organizzate sotto la direzione di un capo, per depredare i viandanti, a mia memoria non è mai esistito nell’agro romano. Chi volesse trovarne traccia dovrebbe risalire a qualche secolo addietro, quando non esistevano le ferrovie e si viaggiava in diligenza.
Neppure esistono più briganti, isolati, intendendo per brigante chi esercita abitualmente la rapina: Tiburzi e Fioravanti, gli ultimi rappresentanti di questa razza scomparsa, non risiedevano nell’agro romano, sebbene di tempo in tempo vi facessero qualche incursione. Vi è stato da noi qualche malvivente, o per meglio dire, scansafatiche che, invece di lavorare, preferiva girare pei casali e per le capanne delle tenute, intimidendo i campagnoli e spillando loro danaro e cibarie. Tali erano per esempio, certo Gigiaccio ed un altro detto il Toscanino che, verso il 1886, si aggiravano insieme nella tenuta di Boccea ed in altre vicine. Costoro raccontavano storie tremende di omicidi, grassazioni e vendette: tutte frottole! E con questo mezzo e con qualche minaccia riuscirono per un certo tempo ad ottenere il loro intento di campare a ufo. Furono arrestati presso il casale di Boccea, mentre tranquillamente risposavano all’ombra di un carretto. Vi è stato anche un certo Fedele Campitelli il quale, condannato per omicidio nel 1870, è rimasto latitante nell’Agro romano fino al 1900, senza però far parlare affatto di se. Costui, già cocchiere del mercante di campagna sig. De Angelis, nel settembre del 1870, poco dopo l’entrata delle truppe italiane in Roma, attaccò lite in un’osteria con certi “patrioti” che, vedendolo sbarbato, si posero a dileggiarlo, chiamandolo caccialepre, caciapile ecc. Campitelli, un vero atleta, afferrò un banco e cominciò a menar botte da orbo a diritta e a sinistra, né si ristette finché i suoi dileggiatori non furono tutti caduti o fuggiti. Il guaio fu che due ne morirono. D’allora Campitelli si diede alla campagna per circa trent’anni finché, malato, fu dall’ambulanza della Bottaccia portato all’ospedale di S. Spirito, ove morì. Colle caserme che vi sono però ora nella campagna romana, sarebbe impossibile quasi non cadere nelle mani della benemerita dopo poco tempo. Bello era sentirlo raccontare alcuni suoi incontri coi Carabinieri. Un giorno, passando nei pressi di Villa Pamphili, fu chiamato da due di quei militi, che erano seduti su un ponticello. Fu interrogato dell’essere suo, e poiché s’accorse che le cose mettevano male per lui, con una rapida spinta fece cadere i carabinieri nel sottostante fosso e se la diede a gambe. Un’altra volta trovandosi nella tenuta di Porcareccina vide due carabinieri che si dirigevano alla sua volta. Fuggire sarebbe stato lo stesso che svegliare i loro sospetti. Cominciò allora a gridare, a strapparsi i capelli, a gittare il cappello in aria e a fare altri gesti da disperato. I carabinieri, dubitando di aver che fare con un pazzo fuggito dal manicomio, gli domandarono che cosa gli fosse successo. E Campitelli: “Sono rovinato....sono rovinato ....mi sono fuggiti due tagli di mietitori.... Che birboni! Li avete visti ?” E con quest’astuzia si salvò. Altri tipi frequentavano la tenuta di Tragliata nel 1893 importunando e minacciando il sig. Santovetti con lettere minatoria. Venne da Civitavecchia un cacciatore (tenente dei carabinieri) per catturarli ma non vi riuscì. Poi scomparvero. Nella tenuta di Pantano di Borghese, verso il 1874-75 lavorava una gavetta di bifolchi i quali si erano specializzati nel rubare di notte ai carrettieri addormentati. La roba rubata, vino, farine, olio, mercerie, salumi, era nascosta in una grotta in cui avevano accesso i soli.....soci. Qualche volta anche si recavano con ceste e fucili nelle vigne della vicina Monteporzio... per alleggerire ai contadini le fatiche della vendemmia, come direbbe il Manzoni. Uno di questi messeri è ancora vivente. Altra banda di malviventi si formò nelle nostre campagne nel 1887, anno di disoccupazione e di crisi. Durò solo pochi mesi: uno dei componenti la banda, detto il Napoletanello fu ucciso da un suo compagno, gli altri furono presi o si dispersero. Commisero vari delitti, tra cui l’uccisione di un pastore nelle tenute del “Sor Bernardo Taulongo”. Ora di fatti consimili non se ne verificano più da un pezzo: però qualche grassazione isolata, per parte di briganti, diremo così occasionali, è avvenuta in tempi anche molto prossimi a noi. Uno dei posti più malfamati a questo proposito era il ponte degli Squarciarelli sulla strada fra Marino ed Albano. Molte grassazioni sono ivi avvenute per parte di gente per lo più venuta appositamente da altre contrade armata e bendata. Ora quella strada è molto sorvegliata: vi passa continuamente il tram elettrico dei Castelli Romani e le grassazioni sono diventate un ricordo d’altri tempi. Altre località cui si collegavano storie paurose di briganti e di omicidi erano le tenute di Conca e Campomorto. Abbiamo già accennato altrove che queste tenute godevano un tempo il privilegio dell’immunità. Chiunque avendo dei conti da regolare con la giustizia si rifugiava in quelle tenute era esente dalle ricerche della polizia e poteva rimanervi indisturbato finché... non crepava di malaria. Il triste privilegio fu tolto dal papa Alessandro VIII nel 1630 e su una lapide esistente nella casale di Conca ancora si legge la seguente
NOTIFICAZIONE
In questa tenuta a Ferriere di Conca né fuori di essa e specialmente nel luogo del delitto non godono alcuna esenzione privilegio o licenza i facinorosi micidiali contumaci della giustizia per bando capitale, o per bando di galera in vita, o di 10 anni per omicidio, o di galera perpetua per privazione di nomina, per qualunque altro delitto e quelli che portano coltelli ed altre armi proibite nella bolla della felice M.R.M. di Alessandro VIII, né a simili persone gioverà allegare la buona fede o l’ignoranza.
Anche dopo abolita la franchigia quelle tenute situate fra boschi e paludi, nel centro dell’agro, a grande distanza da Roma e da altri centri abitati, furono teatro talora di scene brigantesche. Il compianto mercante di Campagna sig. Achille Gari Mazzoleni, circa 35 anni fa presso il bosco di Casal della Mandria, non lungi da Campomorto, mentre trovavasi in carrozza col suo vergaro, fu assalito da alcuni malfattori armati che gli esplosero dietro alcuni colpi di fucile, uno dei quali, forati il mantice della carrozza, ferì ad uno zigomo il vergaro. Altra aggressione ebbe a patire vari anni fa il medico di Carano, tenuta anche questa prossima a Campomorto, nella località detta a Crocetta. Anche nella tenuta di Castel Giuliano sono avvenuti due fatti del genere, che meritano di essere ricordati. L’affittuario sig. A.L. trovandosi in carrozza con la sua signora, si ebbe il solito intimo: faccia a terra ! Egli fece atto di gittare il portafogli, ma poiché i malfattori gl’imposero di scendere per perquisirlo, egli scese di fatto unitamente alla moglie e mentre questa si riparava dietro la carrozza, egli, afferrata la doppietta, cominciò a far fuoco contro gli assalitori: uno di questi restò ucciso, tre furono feriti gravemente; il sig. L. restò illeso, alla moglie una palla portò via il cappello. Il sig. Placido Rosi altro affittuario della stessa tenuta, uccise molto tempo dopo un malvivente che voleva a forza entrare nel casale. Lo freddò con un colpo di fucile tiratogli da una finestra. Anche alcuni anni fa un disgraziato velocipedista fu ucciso e depredato poco lungi da Roma, presso la tenuta di Procojo Nuovo: ma fatti consimili accadono da per tutto e nell’Agro romano oramai non sono più frequenti che in altre contrade più avanti nel cammino della civiltà. La delinquenza è purtroppo insita nella natura di certuni e quindi non potrà mai sparire del tutto: però è innegabile che questa speciale forma di delinquenza diviene sempre più rara ed errerebbe di molto chi volesse ancora ritenerla come caratteristica delle nostre campagne.

LE DISPENSE

Moltissimi anni or sono i mercanti di campagna solevano corrispondere ai loro salariati, esclusi i vaccari, una mercede in danaro e la spesa cioè il vitto in natura, pane, grascia (grasso, sugna) e sale, nella misura rispettivamente di libre 18, 2 e 0,5 per ogni settimana. Vi era perciò un dispensiere salariato, che aveva in consegna questi generi e ne curava la distribuzione. Ora invece i lavoratori percepiscono la mercede interamente in contanti e sono liberi di provvedersi dei generi alimentari dove vogliono. Siccome però i centri abitati sono spesso lontani, nel casale della tenuta un’apposita stanza è adibita a dispensa ed è a tal’uopo ceduta in affitto dal mercante ad un Tizio qualunque per una corrisposta abbastanza elevata. In una buona dispensa non manca un largo assortimento di generi: pane, vino, grascie (salame, prosciutto, lardo, ventresca, alici, baccalà) formaggio, legumi, cereali, polli, uova, pasta. Ad alcune dispense è annesso il forno, ad altre uno spaccio di sali e tabacchi e l’Ufficio Postale. Queste dispense più importanti, piccoli empori di generi commestibili e di mercerie, sono come tanti centri d’irradiazione, cui fanno capo le aziende di altre tenute limitrofe: vi si provvedono pure pei generi di prima necessità i medici di campagna, i maestri, i carabinieri, i coloni, i macchiaroli, i casellanti della ferrovia, nei posti di caccia vi alloggia qualche cacciatore ecc. La domenica poi, oltre ai campagnoli, vi convengono allegre comitive di cittadini, di cacciatori e di pescatori, vi si mangia, vi si fa baldoria, vi si gioca e sopra tutto vi si spaccia molto vino. Si capisce che i generi non sono di prima qualità, ma il proverbio ‘o mangiar questa minestra o saltar questa finestra” pare fatto appositamente per queste dispense. Per largo tratto all’intorno non vi sono altri negozi del genere ed il dispensiere naturalmente profitta di questa mancanza di concorrenza per aumentare i suoi guadagni. Agli addetti della tenuta è poi proibito dal mercante, nell’interesse si capisce del dispensiere, di vendere generi alimentari: così il mercante può pretendere un fitto più elevato e il dispensiere realizza guadagni rispettabili sempre, se non lauti: i consumatori fanno le spese per entrambi.

I SENSALI

Le negoziazioni relative all’acquisto e alla vendita dei prodotti dell’Agro o del bestiame ivi esistente, come pure quelle relative all’affitto di pascoli, a noli di macchine, di buoi, a tagli di boschi, a fide di bestiame ecc, si concludono quasi sempre a Roma e precisamente a Piazza Colonna. Ivi, verso l’imbrunire, si dà convegno oltre ai mercanti, una quantità di mediatori o sensali che vivono appunto speculando su questi affari, sui quali percepiscono una percentuale come mediazione. Vi è gente di tutte le risme e qualità, vi è il sensale onesto e coscienzioso che non inganna i suoi clienti e vi è l’arruffone, il gabbamondo che, pur di fare il proprio interesse, non esita a dare un’impiombatura al cliente od a metterlo negli impicci. Vi è il pezzente e quello che veste da signore, vi è il professionista autentico e il guastamestieri. Questi ultimi sono anzi in maggioranza perché la professione del sensale è una specie di refugium peccatorum : il mercante fallito e rimasto al verde, il fattore, il massaro, il vergaro stufo del suo mestiere o incapace di esercitarlo a dovere, l’agronomo senza clienti, insomma tutti quelli che hanno qualche pratica, anche superficiale, della campagna, e che non trovano di meglio da fare, s’improvvisano sensali e vanno a caccia di affari. L’ambiente quindi di Piazza Colonna, nell’ora delle contrattazioni, è una specie di borsa dei prodotti e delle industrie dell’Agro e per il movimento, il vocio, l’affaccendamento dei frequentatori, come pure per il genere di arti usate dai medesimi, non ha nulla da invidiare alla borsa dei valori....cartacei: la stessa diffidenza, lo stesso studio di accaparrarsi un affare buono o di far parere buono quello cattivo e viceversa... Guai, ai novellini ed agli ingenui. Non tutti però gli affari relativi all’Agro romano si concludono a Piazza Colonna. Gli affari di centinaia di migliaia di lire, come la vendita dei terreni, gli affitti delle tenute ed altri consimili, si combinano negli uffici delle amministrazioni principesche fra il sensale grosso e l’amministratore: il primo si guadagna laute provvigioni ed anche il secondo spesso .....non ci rimette. Anche nella professione dei sensali se molti sono i chiamati pochi sono gli eletti: pochi sono coloro che riescono a farsi una buona posizione morale ed economica: occorre acume, pratica e furberia e scilinguagnolo sciolto. Occorre anche una spina dorsale pieghevole: quanti inchini, scappellate, salamelecchi bisogna fare per acquistarsi la fiducia di qualche casa principesca o di qualche grosso negoziante. Tra i sensali alcuni trattano ogni genere di affari; altri sono specializzati nel commercio dei grani e negli affitti dei pascoli.

I CAPORALI

I caporali sono, come abbiamo già avuto occasione di notare, una specie di mediatori che si incaricano di reclutare i lavoratori necessari per le opere della campagna romana (guitti, mietitori, falciatori, tagliatori, coloni ecc.) anticipano loro le spese di viaggio e parte di quelle del vitto e li conducono sul posto di lavoro. E’ una classe molto antica: se ne fa menzione... e non a titolo di lode, in un editto del 15 agosto 1651, firmato dai Conservatori Agostino Maffei, Domenico Jacovacci e Fabio Massini; dice l’editto: “Essendo venuto a notizia dell’Illustrissimi Signori Conservatori della Camera di Roma li grandi aggravi che si fanno da Caporali et altre persone alli monelli et operai della campagna di Roma per li grandi abusi che fin qui si sono osservati da suddetti, con rivender cose commestibili a poveri operai et monelli con prezzi alterati, et di mala qualità et senza peso e misura contro l’ordini et forme di bandi.” (De Cupis le vicende dell’agricoltura e pastorizia nell’agro romano pag. 634). Malgrado quest’editto i caporali continuarono allegramente ad angariare i poveri lavoratori e coloni in tutti i modi, finché questi non hanno aperto gli occhi e con le leghe, con gli scioperi e simili mezzi si sono imposti ed hanno con seguito notevoli miglioramenti. Del resto si deve pur riconoscere che nelle attuali condizioni dell’Agro romano, finché cioè sarà d’uopo ricorrere all’opera di lavoratori avventizi, l’esistenza dei caporali è indispensabile. Come potrebbero i proprietari ed i mercanti di campagna procurarsi i lavoranti necessari all’epoca della semina, della terra nera, dell’ara se il reclutamento di questa gente riesce difficile ai caporali stessi che vivono negli stessi posti e sono con loro sempre a contatto? La soluzione del problema non potrà essere data che dalla divisione del latifondo, dalla colonizzazione razionale e dalla coltivazione intensiva dell’Agro. Quando nelle nostre campagna invece di una popolazione fluttuante di lavoratori che vengono e vanno avremo famiglie coloniche stabili che procureranno di trarre dal proprio pezzo di terra tutto l’utile possibile, i caporali avranno fatto il loro tempo. Oggi la condizione del caporale non è più tanto rosea come quando le opere lavoravano quasi a loro esclusivo beneficio. Pei lavori che si pagano a giornata percepiscono da 5 a 15 centesimi da ogni operaio e il 5% dal padrone sull’importo totale: pei lavori a cottimo si mettono d’accordo col padrone e con gli operai in modo che resti loro un certo margine di profitto. Anche per fare il caporale, occorre una buone dose di capacità, di pratica e di energia. Si deve tenere a freno una gente riottosa, poco disciplinabile, come pure si deve rispondere verso i proprietari della buona esecuzione dei lavori e del perfetto adempimento dei contratti. Vi è poi il rischio delle bruciature, delle perdite cioè derivanti dal fatto di quegli operai che abbandonano il lavoro e partono, insalutato ospite, lasciando debiti verso il caporale. Quindi se in passato alcuni caporali sono riusciti a mettere insieme capitali considerevoli, coi quali hanno potuto assumere lavori per conto proprio e prendere persino tenute in affitto, crediamo che ciò difficilmente potrà ripetersi ai giorni nostri.




Il presente testo non è ancora la versione definitiva, pertanto contiene errori, omissioni ed inesattezze.Ce ne scusiamo con il lettore. L’ultima parte sarà copiata e pubblicata al più presto e nell’occasione si provvedrà a rivedere per quanto possibile tutto il contenuto. (M.O.)




[1] Pio VI
(Cesena 1717 - Valence 1799), papa (1775-1799). Al secolo Giannangelo Braschi, divenne segretario di papa Benedetto XIV e in seguito, sotto papa Clemente XIII, tesoriere della Camera apostolica e cardinale; succedette a papa Clemente XIV. Lottò contro diversi regnanti europei, che cercavano di limitare la giurisdizione papale sull'amministrazione ecclesiastica. Allo scoppio della Rivoluzione francese tutte le proprietà della Chiesa in Francia vennero confiscate e quando il regime rivoluzionario pretese un giuramento di fedeltà dal clero, il pontefice definì empia la rivoluzione (1791). Sostenne quindi la coalizione antirivoluzionaria delle potenze europee e nel 1797, dopo che Napoleone ebbe invaso l'Italia, fu costretto a cedere i territori papali alla neonata Repubblica Cisalpina. Nel 1798 le armate francesi marciarono su Roma, dove era stata proclamata la repubblica dai rivoluzionari alleati dei francesi, i quali pretesero che il pontefice rinunciasse alla sovranità temporale. Rifiutatosi, Pio VI fu fatto prigioniero e trattenuto dapprima a Siena e infine a Valence, in Francia, dove morì.
Pio VII
(Cesena 1742 - Roma 1823), papa (1800-1823), si oppose a Napoleone in difesa delle prerogative tradizionali della Chiesa. Al secolo Gregorio Luigi Barnaba Chiaramonti, dapprima monaco benedettino e poi abate e cardinale grazie alla sua parentela con papa Pio VI, poco dopo l'elevazione al soglio pontificio negoziò il Concordato del 1801 con il governo napoleonico, che restaurò la Chiesa in Francia. Nel 1804 il pontefice incoronò Bonaparte imperatore come Napoleone I, ma le relazioni tra i due si deteriorarono quando Napoleone cercò di imporsi sulla Chiesa francese, fino alla rottura dei rapporti diplomatici tra Francia e Stato Pontificio. Nel 1809 Napoleone dichiarò lo Stato Pontificio parte dell'impero francese e imprigionò il papa, trattenendolo a Savona e poi in Francia, a Fontainebleau. Il pontefice resistette coraggiosamente ai tentativi di Bonaparte di costringerlo a esercitare l'autorità papale secondo la linea politica imperiale. La sua strenua resistenza non rafforzò tuttavia il prestigio e la statura morale del papato. Il pontefice non tornò in Vaticano fino alla primavera del 1814, quando le sconfitte militari napoleoniche ne permisero la liberazione. In seguito il papa abrogò la legislazione emanata dai francesi ristabilendo i gesuiti e l'Inquisizione, e reprimendo le attività della Carboneria, una società segreta liberale.
Tratto da "Pio VI e VII," Enciclopedia Microsoft® Encarta® Online 2001
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[2] Dei lavoranti dei terreni agricoli dicevasi normalmente opere anziché operaio. Troveremo nell’opera ancora spesso questo termine.
[3] Vedi nota precedente.
[4] Sarà chiarito in seguito trattarsi di gruppi eterogenei di lavoranti reclutati dai caporali.
[5] Vedi nota 2.
[6] mangiare la mattina prima del desinare, fare colazione.
[7] Il termine, oggi usato esclusivamente per indicare la ciotola usata dai soldati, è qui da intendersi nell’accezione di unione di alquante persone per una funzione determinata, accezione anch’essa di origine militaresca. Il primo significato è “matassina di corde di budello e simili”.
[8] covone
[9] vedi nota 7.
[10] sta per merce, prodotto dunque qui granella, grano.
[11] Sorta di carpentiere.
[12] Vedi nota 2.
[13] procoio o procojo (lo troveremo scritto in entrambi imodi)  
Fonetica: [pro-cò-io]
Etimologia: Etimo incerto
 Definizione: precoio, precuoio, prequoio, proquoio, s. m. nella campagna romana, recinto per il bestiame, spec. ovino e dunque per estensione l’azienda che si cura dell’allevamento in genere.
[14] Scegliere, mondare ortaggi, riso, legumi e sim., eliminando le parti guaste.

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